La Rete della Resistenza sui Crinali (RRC) ovvero il “Coordinamento dei comitati dell’Alto Appennino contro l’eolico-industriale selvaggio” è costituito da  comitati o gruppi di comitati sorti in seguito alla proliferazione dei progetti per la costruzioni di sempre nuovi impianti sulle nostre montagne.

La RRC è nata il 29 Novembre 2010 in coincidenza con la trasmissione della rubrica Report di RAI 3 dal titolo “Girano le pale” (alla quale alcuni di noi hanno contribuito).

Il ruolo principale della Rete della Resistenza sui Crinali è fare acquisire maggiore forza al movimento contro l’eolico industriale ed una rappresentanza unitaria nei confronti di politici, mezzi di informazione ed altre associazioni. La rete è costituita ormai da alcune migliaia di cittadini che rappresentano quel “qualcuno che sorvegli le incompetenze locali per evitare danni e sprechi” (per usare le precise parole della giornalista Milena Gabanelli) nell’attesa che alla tutela (prevista dalla Costituzione) del paesaggio, della salute umana, della salvaguardia della fauna, degli assetti idrogeologici eccetera, ma più in generale della nostra cultura e del bene pubblico, messo in pericolo dalla dimensione e dal numero stesso degli enormi aerogeneratori in una zona così vulnerabile come i nostri crinali, provveda chi ne dovrebbe essere istituzionalmente preposto o chi avrebbe obblighi statutari ad intervenire.

E’ sottinteso che non ci sono preclusioni di carattere politico. Le uniche preclusioni sono nei confronti di chi è favorevole all’eolico industriale.

Sono stati nominati due portavoce del coordinamento, Alberto Cuppini per l’Emilia Romagna e Maurizio Fiori per la Toscana, per comprensibili motivi logistici e per le differenti legislazioni e realtà regionali.

——————————————————————————————————

Storie di chi si è opposto alla…
Follia eolica

Articolo pubblicato dal “Sabato sera” di Imola del 10 aprile 2014.

Nessuno lo sa. I grandi mezzi di informazione l’hanno pressoché ignorata e perciò questa edificante vicenda di democrazia partecipata è destinata inevitabilmente all’oblio. La ricordiamo noi.

Nessun nome, non importa. “Non servono gli eroi a spiegare una vittoria popolare” raccontava una popolare canzone degli anni Settanta. Nessun nome, neppure dei “cattivi”, anche perché sarebbero troppi…

Tutto comincia nei primi anni del nuovo millennio. Prima di allora c’era stata una sola, disastrosa esperienza per realizzare un impianto eolico industriale in Emilia Romagna: a monte Galletto, nel comune bolognese di San Benedetto val di Sambro. Un buco nell’acqua: la storica ditta bolognese che lo aveva costruito fallisce. Niente da fare: sul nostro Appennino non c’è il vento sufficiente a rendere profittevoli questi impianti. Eppure, improvvisamente, ecco comparire tanti anemometri. Che cosa è successo? Il Governo italiano, per attenersi ad una direttiva (teoricamente meritoria) dell’Unione Europea, istituisce un sistema incentivante basato sui “certificati verdi”, per promuovere la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Il prezzo di questa particolare forma di energia diventa, dall’oggi al domani, un multiplo di quello corrente del mercato elettrico. Quella che prima era un’attività che sulle nostre montagne avrebbe inevitabilmente portato gli imprenditori al fallimento si trasforma così nell’affare del secolo.

Diventano perciò appetibili alla speculazione eolica non solo le zone montane e collinari del Sud e delle isole maggiori, dove pure esistono alcuni siti con quel poco di vento in grado di dare un senso (anche se solo finanziario) a questa operazione, mantenendo in attività le pale senza bisogno di una incentivazione perpetua, ma anche zone del tutto marginali, dove è noto, sia dall’esperienza storica testimoniata dalla mancanza dei mulini a vento sia dalle attuali mappe del vento, che quel vento utile non esiste e mai esisterà, neppure se stimolato a soffiare dagli incentivi più alti del mondo. Tra queste l’Appennino tosco-emiliano romagnolo.

Il primo anemometro spunta proprio qui, su questo nostro crinale tra la valle dell’Idice e quella del Santerno, a Casoni di Romagna. L’allarme si diffonde tra la sparsa popolazione locale. Ci si informa, si costituisce un robusto comitato per rendersi conto della situazione e per rapportarsi con l’Amministrazione. Il comitato comprende subito il carattere speculativo dell’operazione in atto e le sue conseguenze devastanti per tutta l’area.

Ma che cosa c’è di male? L’energia eolica, si dice, è quella più pulita del mondo, è silenziosa e non costa niente. Risolverà tutti i problemi. C’è però un particolare che appare da subito non trascurabile: gli aerogeneratori da installare (19) sono enormi: alti in totale 85 metri e perciò in grado di modificare ineluttabilmente la percezione di tutta la zona di crinale e con essa anche quella delle valli intorno. Si scoprono poi anche altre negatività, peraltro già ampiamente riscontrate altrove, dove questi leviatani sono stati installati. Insomma, il progetto appare subito insensato. Eppure, nonostante tutto, viene perpetrato. “Un impianto ce lo dovete lasciare fare”, dicono i pubblici amministratori. Che sarà mai un piccolo sacrificio in cambio della salvezza del pianeta?

Ma Casoni, come prevedibile, è solo un’apripista, come ci si lascia scappare durante la cerimonia inaugurale dell’impianto, all’inizio del 2009. I Comuni a cui si rivolgono gli speculatori sono scelti tra i meno ricchi della montagna e perciò i più interessati a ricevere le royalties- di legittimità quantomeno dubbia -sul fatturato,promesse loro dai futuri gestori dell’impianto per ottenere i nulla osta a costruire manufatti di dimensioni inusitate là dove i comuni mortali non potrebbero, per una serie di giuste ragioni, edificare neppure la cuccia del cane.

In rapida successione, su quello stesso crinale, da Casoni al passo della Raticosa ed oltre, in direzione sud in territorio fiorentino, per una quindicina di chilometri lineari ininterrotti (e anche su molti crinali secondari) si accalca una enorme massa di progetti eolici che, se concretizzati, trasformerebbero l’intera area in un unico impianto da incubo con centinaia di pale rotanti. In certe zone del crinale principale, come ad esempio i Tre Poggioli, vengono individuati più progetti. Tutti vogliono partecipare alla grande cuccagna.

Nel febbraio del 2011 un sindaco della provincia di Firenze mena pubblicamente vanto di avere progetti in itinere per dieci “parchi” eolici sul territorio del “suo” Comune, contiguo al nostro crinale…

Già alla fine del 2010 vengono individuati dai comitati, nella sola provincia di Bologna, progetti eolici per complessivi 200 MW di potenza (una pala di Casoni è pari a 0,85 MW). Intanto un potente politico locale esplicita con entusiasmo la propria intenzione di coronare (sic) di pale tutte i paesi dell’Appennino bolognese.

Il sacrificio di Casoni non è però inutile.

E così, quando i progetti eolici cominciano ad essere presentati a valanga, le popolazioni dei territori interessati si recano proprio a Casoni per rendersi conto di persona del disastro colà combinato.

Vedono le pale (enormi, ma piccole rispetto a quelle dei progetti successivi), ascoltano le testimonianze di chi ci vive accanto, vedono concretizzarsi i loro peggiori timori e inorridiscono: a parte il prevedibile danno paesaggistico e la diminuzione del valore delle proprietà, è scomparsa qualunque creatura che vola, la selvaggina si è allontanata, si è verificata (come previsto) un’importante frana e fin dal primo anno le ore di vento utili sono inferiori di un terzo a quanto propagandato. Ma, quello che è peggio, vengono riscontrati danni alla salute umana, in particolare a causa del livello di infrasuoni emessi dalle ciclopiche pale rotanti a grande velocità.

E soprattutto i molti comitati che intanto si sono formati sull’Appennino tosco-emiliano romagnolo contro questi impianti si rendono conto che, se è stato costruito Casoni contro ogni evidenza logica ed in presenza di un combattivo e numeroso comitato locale, la stessa sorte sarebbe toccata anche a loro.

Perciò, di fronte a tanti avversari disposti a tutto, essi decidono di unire le forze. Nasce così la Rete della Resistenza sui Crinali (RRC), il coordinamento dei comitati dell’alto Appennino contro l’eolico industriale selvaggio, che arriverà a contare fino ad una ventina di comitati aderenti. I soldi a disposizione dei comitati sono pochi, o non ci sono affatto, e quei pochi che ci sono vengono destinati a costose spese legali. Alla Rete viene dunque destinato un impegno di puro volontariato, in aggiunta a quello, già schiacciante, per il proprio comitato. Per l’attività della RRC non gira neppure un euro, ma le persone coinvolte dai comitati sono complessivamente molte migliaia, e decine gli attivisti. Per loro il contrasto all’incubo eolico diventa per anni il secondo lavoro, e per alcune giovani madri addirittura il terzo. Tra i più pugnaci si distinguono per determinazione coloro che avevano fatto impegnative scelte di vita, lasciando gli agi della città per recarsi a vivere in un ambiente più naturale, che ora, improvvisamente, rischia di trasformarsi in un’unica area industriale di dimensioni senza precedenti. Dal loro impegno vengono le competenze (messe gratuitamente a disposizione di tutti) necessarie ad affrontare un avversario onnipotente, che gode di rendite enormi, garantite dallo Stato ed addebitate nelle bollette elettriche di tutti sotto forma di incentivi. “Da ciascuno secondo le sue capacità”, dunque. Inizialmente vengono nominati due portavoce, uno per l’Emilia Romagna ed uno per la Toscana. Tuttavia presto ci si rende conto che la struttura a rete è auto-organizzativa ed è quindi preferibile che i singoli nodi operino in autonomia, nel modo che ritengono più opportuno, per fermare l’ondata speculativa. Ma spingendo tutti nella stessa direzione, sensibilizzando al problema i politici locali, cercando il sostegno dei mezzi di informazione e proponendosi come interlocutori delle associazioni ambientaliste.

Per fortuna, se le pale sono lunghe (le più alte proposte, a Poggio Tre Vescovi, sarebbero state complessivamente alte 185 metri), le bugie hanno le gambe corte. Gli scempi paesaggistici inflitti al Sud non possono più essere negati, e neppure può essere negata l’inefficienza energetica e gli enormi problemi che questi impianti non programmabili costituiscono per la rete elettrica. Ma il colpo di grazia è rappresentato dal costo annuo degli incentivi agli impianti rinnovabili che quest’anno supererà i dodici miliardi di euro, pur trascurando i miliardi di oneri ancillari da spendere a causa della natura intermittente dell’energia fotovoltaica e eolica, per fornire poco più del 10% dell’energia elettrica consumata in Italia: un’autentica catastrofe finanziaria ed ingegneristica… Il Governo, per il quale è un problema insormontabile reperire risorse atte ad alleviare la crisi economica, nel 2012 è perciò costretto ad intervenire per arrestare questa emorragia di risorse della collettività che danneggia in particolare la piccola e media impresa, ormai al collasso. Gli incentivi all’eolico industriale vengono leggermente ridotti, ma, quello che più importa, vengono fissati dei contingenti massimi annui a cui assegnare gli incentivi attraverso un nuovo sistema di aste competitive al ribasso. Improvvisamente, gran parte dei progetti eolici in Emilia Romagna di cui si vociferava non hanno più prospettive realistiche di essere ammessi all’incentivazione vincendo le aste. Dopo un disperato tentativo di costruire in fretta e furia gli impianti il cuiiter era già stato avviato per garantirsi gli ultimi certificati verdi, il fenomeno comincia a diradarsi. Intanto però la situazione economica è peggiorata al punto tale da costringere l’attuale Governo ad elaborare provvedimenti retroattivi per recuperare, almeno in parte, gli incentivi già promessi con incosciente prodigalità nel corso degli anni precedenti. Praticamente da un giorno all’altro scompare la folla degli “sviluppatori” che per qualche anno hanno battuto a tappeto il territorio dell’alto Appennino in cerca di prede.

Si confida dunque, pur sapendo che in questa vicenda la cautela non è mai troppa, che il flagello dell’eolico su ogni crinale delle nostre montagne sia in una fase di esaurimento. Il disastro combinato con le rinnovabili elettriche in Italia è stato ingente: si sono già impegnate per i prossimi vent’anni risorse per oltre 200 miliardi, che graveranno dissennatamente sulle spalle della prossima generazione. In cambio alcune zone montuose e collinari, specie del Sud e delle isole, hanno cambiato fisionomia, destando in chi le guarda un incombente senso di angoscia. Se questo è avvenuto solo marginalmente nell’alto Appennino, adesso sappiamo che è stato merito di qualcuno, a cui difficilmente andrà il plauso di quella politica locale acquiescente, se non complice, alla follia eolica. A tutti costoro vadano le benemerenze acquisite a vantaggio di questa e, soprattutto, delle future generazioni che abiteranno in questi territori, oppure che qui troveranno, nella pace della natura incontaminata, una rara occasione di riequilibrio, in primo luogo della propria psiche, in un’Italia ormai in gran parte de-naturalizzata. Queste persone, dopo la fausta conclusione – con la bocciatura o l’archiviazione di progetti inverosimili – delle vicende che li hanno riguardati, hanno promesso di rimanere vigili a presidiare la loro terra per prevenire il risorgere dell’idra. La loro presenza è, per la montagna, insieme garanzia contro gli abusi e speranza di un futuro migliore.