Il Dragone avvolge nelle sue spire anche le risorse minerarie afghane?

L'uscita di scena degli Stati Uniti in Afganistan lascia aperti molti interrogativi sia sulle sorti delle risorse minerarie afgane sia sulle ragioni dell'Amministrazione Biden di lasciare libero il campo al vorace appetito del Dragone cinese per le materie prime. Inoltre il ritiro militare americano favorisce la crescita del peso della Cina nella regione dove sta estendendo sempre più la sua influenza negli stati dell'Asia centrale che confinano con l'Afghanistan a nord. Consapevoli della sensibilità di Pechino, tutti questi paesi hanno a lungo evitato di condannare l'incarcerazione di massa e le violazioni dei diritti umani nei confronti degli altri musulmani nello Xinjiang.

 

Il Presidente Ashraf Ghani con Xi Jinping in Kyrgyzstan nel giugno del 2019

 

L'Afghanistan ha vaste riserve di oro, platino, argento, rame, ferro, litio ed uranio, ma anche pietre preziose come smeraldi, rubini, zaffiri, turchesi e lapislazzuli. Lo United States Geological Survey (USGS), con una ricerca tra il 2009 ed il 2011, concluse che l'Afghanistan potrebbe contenere 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di tonnellate di minerale di ferro, 1,4 milioni di tonnellate di elementi di terre rare (REE) come lantanio, cerio, ma soprattutto neodimio, oltre a oro, argento, zinco, uranio, mercurio e litio. Secondo i funzionari del Pentagono, la loro analisi iniziale in una località della provincia di Ghazni ha mostrato il potenziale di depositi di litio grandi come quelli della Bolivia, che ha le più grandi riserve di litio conosciute al mondo. L'USGS ha stimato che i depositi nella provincia di Helmand potrebbero produrre 1,1 - 1,4 milioni di tonnellate metriche di REE. Alcuni rapporti stimano che le risorse di terre rare dell'Afghanistan siano tra le più grandi al mondo. L’USGS ha valutato le risorse minerarie dell'Afghanistan in circa 1 trilione di dollari, valore che andrebbe rivisto alla luce delle attuali quotazioni di mercato dove risorse come rame, terre rare, litio ma anche lo stesso ferro, qualora si trattasse di depositi di elevata qualità, hanno prezzi vicini ai massimi storici.

 

Mappa con le 24 zone di interesse estrattivo dell'Afghanistan identificate dall'USGS tra il 2009 e il 2011. Fonte: USGS

 

Le risorse minerarie dell’Afghanistan hanno attirato, non da oggi, le attenzioni dell’Amministrazione americana: già nel 2006, l'Amministrazione Bush aveva condotto indagini aeree sul paese per mappare le sue risorse minerarie, analisi che avrebbe poi portato al rapporto dell’USGS. L’Amministrazione Obama, istituì una task force per valutare la possibilità di costruire un'industria mineraria nel paese, impresa rivelatasi problematica per la corruzione dilagante, problemi di sicurezza e per la mancanza di infrastrutture come strade, ponti o ferrovie.

Per l’Amministrazione Trump l'unica cosa attraente dell'Afghanistan erano proprio le sue risorse minerarie. L'attività mineraria era vista come un "vantaggio per tutti" che avrebbe potuto stimolare l'economia del paese, generare posti di lavoro per gli americani e dare agli Stati Uniti una nuova preziosa testa di ponte sul mercato dei minerali delle terre rare, ormai quasi monopolizzata dalla Cina. Ricordiamo che fu proprio Trump, nell’ottobre del 2020, a firmare un ordine esecutivo per espandere la produzione domestica dei metalli rari e mitigare le vulnerabilità dell’economia americana, soprattutto dalla Cina.

Proprio i consiglieri più vicini a Trump, preoccupati che restasse bloccato in politiche che non hanno funzionato come per gli ultimi due presidenti, hanno suggerito che gli Stati Uniti avrebbero dovuto, quale ricompensa per i loro sforzi militari, promuovere la ricchezza mineraria dell'Afghanistan. Come successivamente disse lo stesso Trump “Al vincitore appartiene il bottino”.

Ma come spesso accade le risorse minerarie in questi anni si sono rivelate una lama a doppio taglio: invece di garantire una crescita economica sostenibile, che porti verso una pace duratura, spesso hanno trasformano il conflitto militare anche in un conflitto di risorse.

Il problema dell’estrazione illegale è dilagante in tutto l'Afghanistan, con migliaia di siti che sono funzionali alla raccolta fondi per i signori della guerra e l'insurrezione. Un rapporto del SIGAR ha scoperto che l'estrazione illegale è costata allo stato fino a 300 milioni di dollari all'anno dal crollo dei talebani nel 2001. Secondo un rapporto di Global Witness, "le entrate che vanno ai signori della guerra e ai talebani dalla provincia di Badakhshan sono della stessa entità delle entrate dichiarate dal governo dall'intero settore delle risorse naturali afghane". Si ritiene che le risorse minerarie siano la seconda fonte di reddito dei talebani.

 

Il ruolo della Cina

 

Per quanto la Cina condividesse con gli USA l'obbiettivo di un Afghanistan stabile, soprattutto per evitare legami terroristici con la confinante provincia Xinjiang, ha svolto un ruolo nella sicurezza del paese molto limitato e ha rifiutato qualsiasi coinvolgimento militare diretto. Si è preoccupata piuttosto di concludere accordi di investimento a spese degli Stati Uniti, che stanno pagando a caro prezzo la loro presenza. L'Afghanistan è uno dei paesi che aderiscono alla Belt and Road Initiative.

Il Dragone ha costantemente aumentato i suoi aiuti economici ed investimenti in Afghanistan, a partire dal 2007 quando venne stipulato un accordo da 3,5 miliardi di dollari per sviluppare la miniera di rame di Aynak.

Jiangxi Copper Group e China Metallurgical Construction Corporation (MCC), oggi di proprietà di China MinMetals Corporation, acquisirono la concessione per sviluppare la miniera di rame di Aynak, situata a 35 chilometri a sud della capitale afgana, Kabul, all'estremità settentrionale della provincia di Logar. I sondaggi hanno rivelato che il deposito di rame di Aynak contiene circa 450 milioni di tonnellate di minerale di rame con un tenore del 2,3% nella parte centrale del deposito ed un valore che ai prezzi odierni potrebbe superare gli 80 miliardi di dollari.

Ma ad oggi l’attività mineraria non è partita: perché? Tutti hanno la (loro) risposta.

Per il consorzio cinese pare che i problemi siano legati alle rinegoziazioni degli accordi contrattuali con il Ministero delle Miniere afghano circa le opere accessorie previste tra cui una ferrovia e una centrale elettrica, alla presenza degli scavi archeologici ed alla situazione della sicurezza nell’area. Anche se in realtà non hanno mai dato una risposta formale.

 

Il campo della spedizione archeologica presso Mes Aynak. I monasteri e gli insediamenti si trovano sul sito di un'antica miniera di rame, che potrebbe essere stata utilizzata per la prima volta dall'uomo fino a 5000 anni fa. Il deposito di rame è uno dei più grandi al mondo.  Foto: Jerome Starkey

 

Un'altra teoria è che la Cina, che ha partecipazioni in altri importanti giacimenti di rame in tutto il pianeta, abbia semplicemente voluto bloccare il sito di Mes Aynak per escludere la concorrenza ma che in realtà lo sfruttamento non fosse una loro priorità. Ooggi queste considerazioni potrebbero cambiare alla luce dei rapporti che si stanno sviluppando con i futuri padroni: i talebani.

Un rapporto dell'United States Institute of Peace (USIP) definiva “irrealistici” gli impegni presi dal consorzio cinese, sostenendo che gli alti tassi di royalty combinati alle infrastrutture sarebbero state un fardello eccessivamente pesante. Anche in questo caso vale la considerazione che quando venne redatto questo rapporto il prezzo del rame era circa la metà dell’attuale. Va ricordato che poco dopo la firma del contratto, i prezzi del rame sono crollati e, dopo una breve ripresa nel 2011-12, rimasero altalenanti fino al 2020.

Oggi forse è più chiaro che mantenendo le distanze ed una imparziale diplomazia, Pechino si è posizionata per lavorare con chiunque controlli Kabul. La conferma si è avuta quando i talebani, invasa la provincia nord-orientale del Badakhshan, e raggiunto il confine montuoso con la regione cinese dello Xinjiang, pur con le connessioni storiche con i gruppi militanti uiguri affiliati ad al Qaeda, si sono affrettati ad affermare con il loro portavoce Suhail Shaheen che "la Cina è un paese amico e lo accogliamo con favore per la ricostruzione e lo sviluppo dell'Afghanistan ... se [i cinesi] hanno investimenti, ovviamente garantiremo la loro sicurezza.”

E sulla questione del loro sostegno ai militanti uiguri contro la Cina ha tranquillizzato Pechino: "Ci preoccupiamo dell'oppressione dei musulmani, sia in Palestina, in Myanmar o in Cina, e ci preoccupiamo dell'oppressione dei non musulmani in qualsiasi parte del mondo. Ma quello che non faremo è interferire negli affari interni della Cina.”

Pare evidente che i presupposti per una proficua collaborazione ci siano tutti anche il considerazione che, nella visione del presidente Xi Jinping, i regimi più autocratici rappresentano una maggiore stabilità per le sue linee di approvvigionamento rispetto alle democrazie che sono, o potrebbero diventare, ostili alla Cina.

Amministrazione generale delle importazioni della Repubblica popolare cinese. Fonte: Verisk Maplecroft.

 

Particolarmente preoccupante è la situazione nell'ambito delle terre rare. Il controllo della Cina su riserve così rilevanti permetterebbe a Pechino da un lato di limitare la sua dipendenza dal Myanmar e dall'altro di disporre di quantità tali di materia prima da poter condizionare i prezzi di mercato se comparisse sulla scena un nuovo competitor.

 

Il Green Deal

 

Con un piano in infrastrutture per oltre un trilione di dollari che prevede un enorme fabbisogno di materie prime e con enormi investimenti nel settore EV, gli Stati Uniti possono permettersi di lasciare alla Cina il controllo (anche) delle risorse afghane?

Un paese che sta cercando di aprire una supply chain alternativa a quella cinese nelle terre rare può permettersi di lasciare alla Cina il controllo (anche) di oltre 1milione di tonnellate di REE?

Interrogativi a cui è difficile dare una risposta soprattutto in considerazione che gli Stati Uniti hanno una capacità mineraria limitata e nessuna capacità di raffinazione dei metalli nel settore delle batterie.

Inoltre, aprire nuove miniere sul suolo statunitense può essere un compito lento e tortuoso data la complessità dei processi di autorizzazione e le promesse fatte dal Presidente Biden durante la campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca. Troppo lento per i tassi di crescita previsti della domanda di metalli per la prossima rivoluzione verde.

"Il processo di autorizzazione federale è stato identificato come un ostacolo alla produzione mineraria e alla sicurezza mineraria degli Stati Uniti", si legge nel disegno di legge sulle infrastrutture.

Per quanto vi siano molte direttive che prevedono forti sostegni per le aziende che investono nei settori green dell'economia, purchè includano la proprietà statunitense, i diritti di proprietà intellettuale nordamericani e l'impegno a non "utilizzare materiale fornito da o proveniente da un paese straniero potenzialmente ostile", resta di difficile comprensione quale sia la strada scelta dall'Amministrazione Biden per fornire la materia prima necessaria affinchè queste realtà creino la necessaria catena del valore "Made in USA" per rendere concretamente possibile il "Buy American".

Le teorie secondo cui gli USA si sarebbero ritirati lasciando che Pechino entri nel "pantano" afgano certi che in breve ne pagheranno le conseguenze lasciano perplessi. La convinzione, sostenuta da molti analisti a stelle e strisce, che l'assenza di infrastrutture costituisca un limite invalicabile allo sfruttamento minerario del paese potrebbe essere una preoccupazione occidentale che non trova riscontri a Pechino, molto più accomodante sulle tutele ambientali, soprattutto quando sono in paesi partner, e d'altro canto nemmeno i talebani sembrano aver messo la tutela dell'ambiente nella lista delle priorità.

Inoltre sono gli Stati Uniti, nella corsa alle materie prime, a dover rincorrere l'Impero di Mezzo che potrebbe accontentarsi di aver tolto dalla disponibilità della concorrenza importanti fonti di approvvigionamento.

Ecco che forse, seppure ad un costo elevato, la valorizzazione delle risorse minerarie afghane costituiva una strada da percorrere per garantire la materia prima necessaria ad un’industria che diversamente non potrebbe nemmeno partire.

 

Giovanni Brussato