L'Azerbaigian fa crollare le illusioni dell'Europa gretina: "Se volete più gas ci dovete pagare tutto e subito, anche se domani non ne avrete più bisogno."

Il Financial Times: "L'Azerbaigian ha avvertito l'UE che sarà in grado di rispettare l'impegno di raddoppiare le esportazioni di gas in Europa solo a patto che vengano garantiti nuovi investimenti nei gasdotti e contratti di acquisto a lungo termine". Con la guerra, i pianificatori italiani ed europei scoprono improvvisamente che pale e pannelli non bastano e che esiste (e deve essere pagato) l'upstream degli idrocarburi fossili.  

 

 

Venerdì mattina, sulla prima pagina del Financial Times, in un occhiello dal titolo "Azerbaijan gas warning" potevamo leggere:

"L'Azerbaigian ha avvertito l'UE che sarà in grado di rispettare l'impegno di raddoppiare le esportazioni di gas in Europa solo a patto che vengano garantiti nuovi investimenti nei gasdotti e contratti di acquisto a lungo termine, proprio mentre Bruxelles si affanna per trovare alternative all'energia russa."

L'articolo di Henry Foy e David Sheppard "L'Azerbaigian avverte l'UE della necessità di nuovi investimenti per il gasdotto" (disponibile per gli abbonati nella versione in rete) così proseguiva in seconda pagina:

 

"Bruxelles e Baku avevano firmato in luglio un accordo per raddoppiare le forniture a 20 miliardi di metri cubi all'anno entro il 2027, uno dei molti nuovi trattati avviati dall'UE per sostituire il gas russo... Ma, come asserisce il viceministro degli Esteri dell'Azerbaigian Elnur Mammadov, espandere il gasdotto di 3.500 chilometri dal mar Caspio all'Adriatico richiede miliardi di dollari di investimenti e contratti con le società europee per acquistare il gas ben oltre il 2027. “Chiunque sia interessato a investire, che sia pubblico o privato, deve mettere i soldi sul tavolo per consentirci di aumentare le loro capacità”... “Non direi che c'è un disaccordo con l'UE, ma questa è una parte importante di questo puzzle”. "Attualmente l'Europa ha un disperato bisogno di trovare fornitori alternativi. Abbiamo bisogno di essere sicuri che questa non sia una sorta di richiesta estemporanea alla luce della guerra in Ucraina, che un giorno finirà, e che all'improvviso voi ricominciate a comperare dalla Russia dicendoci: "Ehi, ragazzi, il vostro gas non ci interessa più". "Sebbene l'Azerbaigian sia felice di contribuire con la sua quota di investimenti, si aspetta che anche l'UE si faccia avanti con investimenti e contratti per l'acquisto di gas che vadano ben oltre il 2027."

 

Un esperto intervistato dal Financial Times ha dato ragione al viceministro azero:

 

"Nessun Paese si farebbe carico del rischio di miliardi di dollari per spese di Sviluppo senza sapere di avere un compratore a lungo termine." La questione è che “sappiamo che l'Europa ha bisogno di più gas nel breve-medio termine, ma la prospettiva nel lungo termine è molto meno chiara, per via degli obiettivi ambientali”.

 

Il viceministro azero ha così demolito in un colpo solo la puerile illusione dei burocrati dell'UE, che era alla base dell'estemporaneo European Green Deal (escogitato da un giorno all'altro dalla Commissione sulla spinta emotiva delle manifestazioni di piazza ispirate dalla "Piccola Greta", scimmiottando un'analoga proposta americana di matrice "liberal"), di utilizzare il gas come strumento temporaneo e residuale prima di diventare, entro il 2050, il "primo continente climaticamente neutro".

Nel contempo è crollata anche l'arrogante convinzione dei nostri "rinnovabilisti", ispiratori di tali "obiettivi ambientali", di poter trattare i fornitori di energia fossile come zimbelli da manipolare secondo il proprio capriccio. Al contrario, in un contesto in cui è improvvisamente scomparsa una consistente parte dell'offerta mondiale di gas naturale, sono proprio i produttori delle fossili ad avere il coltello dalla parte del manico.

Le affermazioni di Mammadov nell'intervista del Financial Times, per le loro implicazioni geopolitiche, hanno avuto una immediata eco in tutto il mondo, ma sono state more solito bellamente ignorate dai giornaloni italiani, per i quali la semplicistica narrazione della "transizione ecologica" prosegue come se la guerra russo-ucraina non avesse insegnato niente.

Se non altro la guerra, oltre a far aumentare a dismisura i costi energetici, ha contribuito a ribadire a) l'essenzialità del gas a sostegno delle FER non programmabili e b) le esigenze dell'upstream, fino ad ora sconosciute ai pianificatori europei ed italiani.

a) Come comprovato in Germania, dove decine di migliaia di pale eoliche rischiano di diventare inutili senza il gas russo, si possono aggiungere a questo sistema energetico tutte le pale e i pannelli nelle combinazioni più disparate, ma una affidabile potenza di generazione, pari al massimo storico della domanda elettrica più un'opportuna riserva di centrali programmabili, deve essere comunque garantita, pena l'inevitabile blackout qualora capiti che vento e sole scompaiano insieme ed inaspettatamente. Per paradosso, tante più pale e pannelli vengono installati, tanto più si è dipendenti dal gas.

Oggi, in Italia, per compensare la prevista diminuzione dell'energia elettrica importata da Oltralpe (che negli ultimi anni ha garantito il 12-15% dei consumi nazionali) a causa della manutenzione degli impianti nucleari francesi, ci sarebbe piuttosto bisogno di centrali programmabili e non di un'ulteriore pletora di pale eoliche e di pannelli FV.

b) La guerra ha poi svelato un altro problema dirimente di un sistema elettrico basato sulle rinnovabili non programmabili: quello dell'upstream, termine apparentemente ignoto ai redattori della SEN e del PNIEC, ossia l'insieme dei processi operativi (acquisizione dei diritti di sfruttamento, esplorazione, sviluppo ed estrazione ai fini della commercializzazione) da cui ha origine l'attività di produzione degli idrocarburi fossili, nel nostro caso del gas, che abbiamo visto essere, per la sua stessa natura tale da garantire l'accensione rapida delle centrali, l'irrinunciabile tampone per compensare le carenze dell'eolico e del fotovoltaico ed evitare continui blackout.

Il punto essenziale, che finora era completamente sfuggito ai nostri esperti (...), è che questo insieme di processi va remunerato per intero, a favore di una lunga catena di operatori che parte dai giacimenti di metano ed arriva fino alle centrali italiane. I pianificatori italiani erano invece convinti che bastasse garantire un capacity market alle centrali a turbogas tenute di riserva ignorando gli altri soggetti di questa catena. Gli azeri (o gli algerini, o i russi, o chiunque altro) per lavorare vogliono incassare i soldi almeno nella stessa quantità che ricevevano prima della comparsa delle rinnovabili. Altrimenti il gas (che in teoria, in una ipotesi "tutto rinnovabili", dovrebbe servire solo in misura residuale) smetterebbe del tutto di arrivare in Italia (e in Europa) e prenderebbe altre strade, paralizzando l'intero sistema energetico. Si rende così necessaria (almeno) una duplicazione sia dei sistemi che dei costi. Quindi, in mancanza di iper-incentivazioni, non ci sarà mai (come l'esperienza sta dimostrando in tutto il mondo) una convenienza economica nell'utilizzare le FER non programmabili se non per la produzione di quantità marginali di energia elettrica.

Presto a batter cassa - e sappiamo di essere facili profeti - dopo gli azeri si faranno vivi, a maggior ragione, anche gli algerini, a cui ci siamo consegnati legati mani e piedi almeno fino alla fine della guerra.

Niente di nuovo sotto il sole. Pagare moneta, vedere cammello. Pagare moneta (calando pure le braghe), ricevere gas.

 

Alberto Cuppini