La transizione inizia e finisce con i metalli

We’re Digging Our Own Graves by Burning, Drilling, Mining Deeper”, così il Segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres in apertura della COP26 a Glasgow ammonisce “Basta con l'estrazione mineraria... stiamo scavando le nostre tombe”.

Lo scrosciante applauso che è seguito definisce la misura di quanto i presenti fossero lontani dalla realtà a conferma che in Europa abbiamo smesso da tempo di porci delle domande su cosa significa estrarre, elaborare e trasformare le materie prime in prodotti finiti: abbiamo convenientemente spostato i costi sociali ed ambientali all’estero, lontano dagli occhi e dalla coscienza.

Ma la transizione verde inizia e finisce con i metalli e non si è colto alcun senso di urgenza per contrastare le emissioni di gas serra che verranno emesse per l’enorme quantità di metalli che dovranno essere estratti per consentire il realizzarsi del Green Deal. La transizione energetica dipende dall'esistenza di riserve sufficienti di materie prime e dalla possibilità che  vengano sviluppate, estratte e trasformate in prodotti raffinati. Solo per questo motivo, i metalli di base avrebbero dovuto essere in cima all'agenda della COP26.

 

 

La COP26 ha confermato come politici, ONG e consumatori siano pronti a stimolare la domanda di materie prime per la transizione energetica attraverso la definizione di un'ambiziosa serie di obiettivi: questi impegni per una maggiore generazione e distribuzione di energie rinnovabili, stoccaggio, infrastrutture di ricarica e adozione di veicoli elettrici richiederanno una massiccia accelerazione degli investimenti nell'estrazione e nella lavorazione primaria. Ma, perché questo possa realizzarsi, è opportuno confrontarsi con lo sviluppo dell'offerta che, per poter essere sostenibile, deve soddisfare rigorosi criteri ESG e fornire al contempo i rendimenti che gli azionisti si aspettano durante il ciclo.

Ma la sfida unica, per l’industria mineraria globale, di produrre più metalli riducendo al contempo le sue emissioni di carbonio, non è un obbiettivo realizzabile.

In questo momento è necessario affrontare il paradosso della decarbonizzazione-crescita poiché il disperato bisogno di accelerare l'approvvigionamento di risorse lungo la catena del valore inevitabilmente porterà a maggiori emissioni: non possiamo decarbonizzare l'estrazione mineraria più velocemente di quanto possiamo aumentare l'offerta, almeno per il prossimo decennio.
Il problema è che l'attuale intensità di CO2 per unità di PIL, di circa 0,4 kg, dovrebbe scendere a 0,2 kg entro il 2050 e l’adozione di un percorso accelerato impone di scendere a meno di 0,05 kg per unità di PIL, un obiettivo più che estremamente impegnativo: irrealizzabile.

Questo problema trae origine dall’impostazione generale della transizione: se la spinta verso la decarbonizzazione viene veicolata dal mercato dei prodotti finiti evidentemente la sua risposta sarà verso l’utilizzo di prodotti di consumo che abbiano credenziali green: il caso delle auto elettriche esemplifica bene questo concetto dove un prodotto viene acquistato da consumatori persuasi di compiere qualcosa di utile per il pianeta e che spesso non sono coscienti dell’impronta carbonica o idrica del bene che stanno acquistando.

La logica di processo per ottenere prodotti green avrebbe previsto la decarbonizzazione della catena del valore a partire dalle materie prime: in questo modo la garanzia di beni a zero emissioni sarebbe stata naturalmente certificata dalla filiera e non saremmo oggi a fare equilibrismi analitici per capire dopo quanti chilometri percorsi un'auto elettrica ha un'impronta carbonica inferiore a quella di un veicolo con motore a combustione interna.
Lasciando che sia il mercato a governare la transizione  le materie prime da utilizzare sono trainate attraverso la filiera dal consumo degli articoli nella fase finale di assemblaggio esattamente come avviene nella logica produttiva odierna basata sul "just in time". Ma se questa logica trova trova opportuna applicazione all’interno del singolo stabilimento non è quella idonea per il Green Deal le cui finalità, almeno sulla carta, non sono quelle di garantire la massima flessibilità al sistema produttivo ma di "salvare il pianeta"...

Infatti tornando al caso dell'auto elettrica, basandoci sulle attuali stime, sarà necessario immettere in atmosfera entro il 2030, circa 1,2 Gt di CO2 solo per produrre le batterie per le auto elettriche vendute fino a quella data. La produzione dei moduli batteria agli ioni di litio consiste in complesse fasi di produzione e la varietà e l'accuratezza dei dati disponibili è limitata e quantomeno opaca. Dati prudenziali, stimano che la produzione e raffinazione dei materiali necessari alla costruzione delle batterie faccia aumentare l'impronta di carbonio dell’auto elettrica di quasi il 70%. Ma le stime sulle emissioni sono destinate ad esplodere nel decennio successivo: senza la decarbonizzazione della supply chain delle batterie potrebbero arrivare a poco meno del 10% delle emissioni globali, 33,6 Gt, del 2019.

Naturalmente sono escluse da queste valutazioni le infrastrutture di supporto e di ricarica oltre alle previste installazioni di energia eolica e fotovoltaica.

L'industria mineraria genera annualmente (Scope 1 e Scope2) fino a circa 5,1 Gt di CO2e. Una grande parte delle emissioni in questo settore proviene dal metano fuggitivo che viene rilasciato durante l'estrazione del carbone principalmente nelle operazioni sotterranee e dal consumo di energia che contribuisce per 0,4 Gt di CO2e.

Ma una quota significativa delle emissioni globali dell’industria mineraria vengono considerate Scope 3 ovvero quelle che vengono generate lungo la catena del valore dove viene stimata l’emissione complessiva di circa 14 Gt di CO2e, dove l'industria metallurgica contribuisce per circa 4,5 Gt, principalmente attraverso la produzione di acciaio e alluminio, e la combustione del carbone per il settore energetico contribuisce fino a circa 10 Gt di CO2e.

Secondo gli analisti della Bank of America le materie prime necessarie ad una transizione accelerata, sulla base delle ipotesi del "Net-Zero" dell'IEA, prevedono un tasso di crescita annuale composto (CAGR) di consumo del 3,6% per il rame, 24,6% per il litio, 7,6% per il nichel, 18% per il cobalto, 2,5% per l'argento e 3,3% per il platino: pare evidente che la quantità di gas serra che verrà immessa l’atmosfera sarà spaventosa se non si interviene decarbonizzando l’estrazione e la raffinazione. Per fare un esempio che ci riguarda da vicino si consideri che sulla base della nuova potenza eolica prevista dal pacchetto Fit for 55 per il nostro paese la sola estrazione e raffinazione delle terre rare necessarie ai magneti permanenti delle turbine eoliche potrebbe immettere in atmosfera oltre 250.000 t di CO2 e non sia di conforto chi sostiene che si possono realizzare turbine senza magneti permanenti: l'utilizzo del rame necessario comporterebbe emissioni di quasi 0,5 Mt di CO2.

 

"Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile. E all'improvviso vi sorprenderete a fare l'impossibile." (S.Francesco d’Assisi)

 

La sola via che oggi può essere proponibile è l’esatto contrario della soluzione caldeggiata dalle lobby green: “installare più rinnovabili”.

E’ necessario più tempo, a breve termine, per affrontare questo problema ed ottenere, a lungo termine, una decarbonizzazione più rapida: si inizia con le basi, riconoscendo che la capacità in tutte le aree dello sviluppo, dell'estrazione primaria e della lavorazione dei metalli è sottodimensionata.

Senza una transizione accelerata diminuirebbe l'esigenza di abbassare l'intensità di CO2 per unità di PIL: questo ridurrebbe la pressione sulla catena di approvvigionamento, in tal modo la carenza di metalli e progetti minerari in fase avanzata, necessaria a far fronte a uno scenario di transizione energetica accelerata, diventerebbe più gestibile.

La richiesta di importanti riduzioni delle emissioni di carbonio legata ad un prezzo globale del carbonio, agli investimenti per decarbonizzare le attività estrattive ed ad una forte crescita delle materie prime che richiedono l'apertura di nuove miniere aumenterebbero i costi dell’industria mineraria, portando a prezzi delle materie prime più elevati: le materie prime in gioco, la potenziale crescita dei prezzi e le emissioni di CO2 sono funzioni di come e con quale ritmo avviene la decarbonizzazione.

Diversamente c'è un prezzo da pagare: "Se i consumatori vogliono una transizione accelerata, le emissioni arriveranno", sostiene Michael Widmer, responsabile Metals Research presso la Bank of America.

Sarebbe necessario iniziare la decarbonizzazione dell'industria mineraria partendo dall'industria del carbone, in particolare nell'affrontare le fughe di metano. Esistono soluzioni per catturare il metano (e utilizzarlo per generare energia), ma non sono comunemente implementate inoltre non ci sono soluzioni pronte per tutti i tipi di miniere e in molti casi l'investimento non è economico. Ma questo consentirebbe di abbattere, da subito, una considerevole quantità di emissioni, stimabile tra 1,5 e 4,5 CO2e, e consentire un'uscita progressiva dal settore che oggi costituisce circa il 50% del mercato minerario a livello globale, con una domanda ancora in aumento.

 

Portafoglio minerario di alcune delle principali compagnie a livello globale nel 2019.

 

Per molte compagnie minerarie nel mondo sarà difficile sostituire completamente le entrate del carbone: significherà riequilibrare i propri portafogli minerari, non diversificati, con le nuove materie prime, di fatto una nicchia, che, pur non essendo in grado di sostituire l'entità dei guadagni dal carbone, sicuramente potranno aiutare a gestire le perdite.

Ma riequilibrare il proprio portafoglio, per ogni compagnia, richiederà competenze di mercato sofisticate e tempi non compiutamente definibili.

E qui entra in gioco un elemento cruciale: quello finanziario, che si articola in molteplici aspetti.

Per facilitare la crescita della domanda, le compagnie minerarie dovranno aumentare gli investimenti in attività di natura operativa, capex, per permettere la crescita della capacità primaria. Le stime indicano in poco meno di un trilione di dollari la spesa prevista entro il 2030 solo per evitare colli di bottiglia verso il raggiungimento di "Net-Zero" ed in più del doppio, 2 trilioni di dollari, per ottenere una transizione energetica accelerata. Per contestualizzare questo numero si consideri che il capex minerario globale è stato poco meno di 100 miliardi di dollari nell'ultimo decennio.

 

Dopo il picco del 2012 la spesa in conto capitale delle prime 10 compagnie minerarie globali è rimasta relativamente bassa. Dati in miliardi di dollari.

 

L’ultimo superciclo delle materie prime di un decennio fa ha comportato pesanti costi ed operazioni onerose che si sono concluse con miliardi di svalutazioni e pertanto molti azionisti rimangono tiepidi sulle grandi espansioni greenfield, cioè nella ricerca di nuovi giacimenti. Sarà quindi importante capire come le compagnie bilanceranno la distribuzione dei dividendi con un equilibrio di capex spostato verso la crescita ma soprattutto, in via principale, se l'industria mineraria, o meglio i suoi investitori, intenda finanziare gli investimenti significativi necessari per seguire il percorso di una transizione accelerata.

Indice dei prezzi dei metalli da gennaio 2020 a settembre 2021 (3/01/2020 = 100)

 

Le compagnie minerarie che espandessero gli investimenti in modo troppo aggressivo, facendo crescere la produzione troppo rapidamente, secondo molti operatori danneggerebbero potenzialmente le dinamiche positive della domanda e dell'offerta: l’attuale livello dei prezzi delle commodities fa gola ad una finanza che vede con meno interesse il problema delle crescenti emissioni di CO2.

Naturalmente, questo presuppone che rimanga possibile sviluppare fisicamente la capacità di estrazione e di trasformazione richiesta nel tempo, il che non è affatto un dato di fatto: oggi i tempi di apertura di una miniera dalla scoperta alla produzione, secondo Mark Cutifani, CEO di Anglo American, sono fino a 12-13 anni e ricordiamo che secondo la IEA questo valore sarebbe più vicino ai 18 anni.

Inoltre gli investitori istituzionali preferiscono, naturalmente, limitare gli investimenti ai paesi a basso rischio, ma questo non sarà possibile se una transizione energetica accelerata deve diventare la via obbligata. Saranno quindi necessari accordi intergovernativi per garantire la tutela della proprietà e per sostenere effettivamente progetti in cui, il profilo di rischio del paese, ha finora precluso gli investimenti al fine di evitare alle compagnie minerarie i rischi legati al nazionalismo delle risorse.

In assenza di un cambiamento radicale nella politica, senza interventi da parte degli Stati con approcci nuovi e razionali, mettendo da parte le ideologie e perdurando, invece, la mancanza di pianificazione che ha contraddistinto finora l’approccio alla transizione energetica, la produzione delle materie prime necessarie al Green Deal potrebbe tradursi in un nuovo, storico, picco di emissioni.

 

Giovanni Brussato