Trilogia per le energie pulite

"Devastazione paesaggistica senza precedenti nell’intera storia del nostro paese". Carlo Alberto Pinelli, senza ipocrisie, esprime con forza - se non addirittura con brutalità - il dovere morale di smascherare la mistificazione che sta alla radice di chi si appropria del termine “green” per scopi ben lontani dai reali interessi dei cittadini di oggi e di domani.

 

Una goccia velenosa.

Mi è capitato di leggere, sul numero 146 (4 ottobre 2019) de Il Venerdì di Repubblica, un’intervista dal titolo “Anno 2050: Bye Bye Petrolio”. Le domande sull’aumento delle emissioni inquinanti, e sugli stratagemmi per contrastarle, senza necessariamente stravolgere gli stili di vita dei cittadini del mondo, erano rivolte all’ingegnere ambientale Mark Jacobson della Stanford University. Le conclusioni mi sono parse inquietanti. Ma non per il motivo che il lettore si sta immaginando. Prima di spiegare le ragioni che mi inducono a usare un aggettivo così minaccioso vorrei fare una premessa, per inserire l’argomento nella cornice di quelle che a mio parere sono le sue esatte dimensioni.

L’emergenza climatica è un dato incontrovertibile e bene agiscono tutti coloro che stanno aiutando Greta a suscitare la straordinaria ondata di proteste giovanili cristallizzate nei Fridays for Future. Però la soluzione rimane tutt’altro che semplice, malgrado qualsivoglia entusiasmo estemporaneo; ed è lontana, come lo era prima, dall’individuare un percorso efficace, checché se ne dica e ci si auguri; purtroppo non basta marciare per le strade, sventolando simpatici cartelli, o sollecitare sit-in di digiuno, per arginare un processo economico/culturale (o un virus?) che ormai domina ogni anche minimo aspetto dell’ esistenza di tutti noi e pilota le aspettative di miliardi di nostri simili. Lungi da me l’idea di sminuire il significato della protesta contro l’industria inquinante. Però, detto brutalmente, è la diffusa (e di per sé legittima) aspirazione al benessere materiale il fattore di gran lunga maggiormente colpevole dell’aumento di CO2 nella biosfera. Fa male doverlo ammettere: ma la verità, più spesso di quanto si creda, può anche non vestire i panni del “politically correct”. Anzi, a voler essere ancora più brutali: è la crescita al momento inarrestabile della popolazione mondiale (e in particolare delle classi borghesi emergenti) a rendere praticamente impossibile la fuoriuscita dall’incubo incombente di cui parla, con accorati toni apocalittici, la ragazzina svedese. Abbiamo a che fare con una crescita della specie umana cancerogena, anche se tutti evitano di parlarne, a cominciare dalla famosa  e per molti versi pregevolissima enciclica “Laudato Si”.  Un silenzio irresponsabile, che sottrae validità a ogni altra proposta alternativa.

Ma cominciamo a vedere, in estrema sintesi, le cose come stanno, per capire se le soluzioni ventilate contengano una qualche briciola di efficacia o siano soltanto puerili scongiuri, buoni per pacificare le coscienze ma incapaci di abbassare anche solo di una linea la febbre del pianeta.

I paesi dell’OCSE, di cui l’Europa fa parte, contribuiscono all’inquinamento da CO2 per un terzo del totale mondiale. E’ una percentuale ancora troppo alta ma attualmente in lieve diminuzione. L’Europa è responsabile del 9 per cento del totale. Per il momento la dispersione nell’atmosfera di CO2 in Europa decresce già del 2 per cento annuo. Non basta, però è già qualcosa. I paesi non OCSE, tra cui la Cina e l’India, sono responsabili dei due terzi delle emissioni inquinanti e le aumentano del 3,4 per cento l’anno. Questo trend micidiale appare destinato a crescere in sintonia con le aspettative delle popolazioni locali. Aspettative in gran parte sacrosante, ma non per questo meno esiziali.

Veniamo all’Italia. Il Piano Nazionale Energia e Clima prevede il raddoppio dell’energia pulita per il 2030. Il costo dell’operazione è stimato ufficialmente a 187 miliardi di euro, da sommare ai 220 miliardi di euro che la nostra collettività sta già pagando per onorare gli impegni internazionali relativi al clima. A sborsare questi ulteriori 187 miliardi saranno sempre gli italiani attraverso le bollette o altro. Un salasso salato, che tutti però saremmo disposti ad affrontare se ne derivasse qualche reale e significativa diminuzione della percentuale di CO2 nell’ atmosfera; e a patto che non erodesse fino all’osso, strada facendo, i valori immateriali in cui si incardina la nostra cultura. I sostenitori del provvedimento affermano che una gran parte di questa spesa verrà coperta dalla sterilizzazione degli sgravi concessi fino ad oggi alla produzione di energie fossili. Si tratta di un plateale abbaglio, perché tali sgravi riguardano i carburanti utilizzati dall’agricoltura ( benzina e gasolio per trattori e altri macchinari), dai pescatori ( idem ), dagli autotrasportatori ( idem). Gli sgravi hanno avuto fin’ora la loro ragione nel compensare parzialmente l’alto prezzo dell’energia che questi settori economici devono sopportare in Italia rispetto ai loro concorrenti europei. Quando il Governo si è reso conto dell’alzata di scudi che un simile provvedimento avrebbe provocato ha subito fatto marcia indietro.

Ritorno all’articolo del Venerdì di Repubblica, all’intervista con Mark Jacobson, e al mio sconcerto. Mi limiterò ad affrontare il tema delle turbine eoliche, un problema spinoso di cui da anni mi occupo, lasciando arbitrariamente da parte il fotovoltaico.

Mark Jacobson sostiene che in Italia, entro il 2050, l’energia di fonte eolica può raggiungere il 26 per cento del fabbisogno elettrico totale, contro l’attuale 5 per cento. Per riuscirci occorrerà però utilizzare 5700 km quadrati di terreno, pari – diciamo – all’estensione dell’intera regione Friuli- Venezia Giulia, o quasi. Se srotolassimo questi 5700 km quadrati lungo l’intera dorsale collinare e montana della penisola, quella cioè adatta (si fa per dire) a questo tipo di impianti, ci troveremmo di fronte ad una devastazione paesaggistica senza precedenti nell’intera storia del nostro paese. Basti pensare che già oggi, per racimolare quel misero 5 per cento di intermittente e inaffidabile produzione di energia elettrica dal vento, sono state snaturate enormi porzioni di paesaggi dell’Italia meridionale. Di fronte a simili obiezioni Jacobson non si scompone. Si tratta solo, dice, di abituarsi alla vista di quell’ininterrotta selva di pale rotanti. Del resto, conclude seraficamente, tra una turbina e l’altra si possono continuare le tradizionali attività agricole e pastorali. Cosa pretendiamo di più?

Io credo che quelli che ragionano come Jacobson siano i veri nemici della specie umana. Sempre che “essere umani” significhi ancora non abdicare alla percezione della bellezza, alle proprie radici culturali e al rispetto della storia di cui siamo figli. Conosco l’obiezione: se la casa è in fiamme, dovremo rassegnarci a sacrificare i nostri valori, anche quelli fondamentali, pur di garantire ai posteri un qualche tipo di sopravvivenza. La risposta all'obiezione è semplice: il ricorso alle pale, così come vengono proposte oggi, non ci avvicina neppure di un millimetro a quella sopravvivenza. Per cambiare in parte la prospettiva bisognerebbe trasferire reali e massicci investimenti nella ricerca. Quale ricerca? Per esempio quella che riguarda la messa a punto di credibili sistemi di stoccaggio che neutralizzino l’intermittenza (il vento è capriccioso e durante la notte il fotovoltaico si spegne), abbandonando nel frattempo l’affrettata installazione degli attuali modelli, con gli investimenti connessi. O se si preferisce, si potrebbe per lo meno cominciare a istituire un tavolo nazionale, al quale invitare tutti i portatori di interesse, ambientalisti inclusi, per decidere dove sia accettabile la presenza delle pale eoliche sull’intero territorio della penisola e dove no, in relazione alla ventosità, al pregio dell’ambiente circostante, infine ai vantaggi reali che se ne potrebbero trarre. Resterebbe però un’ altra domanda senza risposta: fino a che punto potremmo accettare il baratto tra l’oggettiva degradazione di una parte non marginale di quei valori culturali (radicati nei paesaggi) che ci hanno fatti quello che siamo e il miraggio della sopravvivenza futura? 

Invadere la maggior parte dei profili collinari italiani, così ricchi di echi e di storia, con decine di migliaia di manufatti rotanti, ormai molto più alti della Mole Antonelliana di Torino, equivale ad una radicale e brutale omogeneizzazione dei paesaggi, senza apprezzabili contropartite a livello del problema planetario. Le selve delle torri eoliche, a causa del loro numero e delle loro spropositate dimensioni, diventeranno l’elemento dominante – schiacciante - dei paesaggi in cui verranno innalzate. La loro presenza cannibalizzerà, sottometterà e umilierà tutte le altre forme, spesso sottili e delicate, dei tessuti territoriali locali, danneggiandone l’armonica percezione. Basta fare un viaggio nel Molise, in Basilicata o in alcune parti della Sicilia per convincersene. Stiamo per essere imprigionati in una mostruosa gabbia di aerogeneratori che producono qualche briciolo di energia solo quando soffia il vento adatto. Ne vale davvero la pena?

L’invasione eolica porta ad un’ irreversibile semplificazione a senso unico dei paesaggi identitari; a una definiva obliterazione di quanto resta ancora delle loro così diverse sedimentazioni storiche e delle loro valenze simboliche e emotive. Una drammatica perdita di identità, passaggio obbligato verso la loro degradazione in avamposti delle periferie urbane: “non-luoghi” indistinguibili gli uni dagli altri.

Temo fortemente che molte spregiudicate lobbies economiche si apprestino a cavalcare le ragioni della protesta studentesca e usino astutamente lo tsunami emotivo causato dalla predicazione di Greta come grimaldello per far approvare da chi ci governa, con la superficiale fretta dettata dalla presunta emergenza, provvedimenti privi di vantaggi per il corpo sociale, inefficaci riguardo al problema mondiale, ma molto lucrosi per loro stesse.

Stiamo assistendo, insomma, all’ultimo atto della conquista “coloniale” del mondo rurale da parte delle logiche e degli interessi di gruppi finanziari e di pressione senza scrupoli, spesso infiltrati dalla malavita organizzata.

Se almeno il massacro del paesaggio contribuisse a capovolgere il cammino della società mondiale che va verso l’auto-distruzione! Però così non è. Fin troppo evidentemente. L’energia che si può produrre dal vento – per lo meno con le tecnologie attuali - resta e resterà sempre solo una goccia nel mare. Una goccia velenosa.

 

Picnic sull'orlo di un diverso vulcano.

Il 16 maggio il supplemento Album del quotidiano La Repubblica era interamente dedicato al tema dello sviluppo sostenibile (Salviamo la Terra). Ci piacerebbe poter applaudire all’iniziativa, riconoscendone lo scopo encomiabile e opportuno. Se esitiamo a esternare questo giudizio favorevole è perché non possiamo aderire ad alcune delle conclusioni che trovano spazio e credito nelle pagine interne (rinforzate dall’illustrazione della prima pagina) e nelle quali si danno per scontati gli effetti addirittura risolutivi  di soluzioni energetiche alternative, definite acriticamente come “green”.

Il riscaldamento globale del Pianeta – per lo meno per la parte imputabile alle attività antropiche – è un fatto di estrema gravità. Di conseguenza diviene difficile concordare con chi, seppur animato dalle migliori intenzioni, concede credibilità a quelle forze economiche che tentano di circuire l’opinione pubblica, spingendola a cullarsi nell’illusione che basterebbe il contributo delle energie rinnovabili a invertire la rotta, senza mettere in crisi le abitudini acquisite, qualora fosse data loro la più ampia libertà di invadere a piacimento e senza regole i territori italiani. Da tempo l’ANEV protesta contro i controlli delle Soprintendenze che pongono limiti e paletti alla diffusione a macchia d’olio delle pale eoliche e del fotovoltaico sui terreni agricoli. Con echi favorevoli anche all’interno della compagine governativa. Noi invece consideriamo le Soprintendenze, malgrado alcuni loro difetti, come l’ultima e fondamentale trincea a difesa dei valori culturali, naturalistici, ecologici che qualificano il paesaggio identitario italiano, tutelato dall’articolo 9 della Costituzione.

E’ comprensibile che le industrie del settore sostengano a spada tratta la loro narrazione di parte, imponendo anche visivamente all’immaginario collettivo il profilo delle pale eoliche come icona della salvezza del Pianeta. Qui occorre una precisazione. Nessuno di noi è contrario all’intervento delle energie rinnovabili per mitigare  l’abuso dei combustibili fossili. Ma crediamo che esse debbano essere molto ridimensionate per quel che concerne il loro effettivo contributo alla lotta contro il riscaldamento globale. Se il Pianeta brucia occorre ben altro per spegnere l’incendio!  Da ciò deriva il dovere morale di smascherare la mistificazione che sta alla radice di chi si appropria del termine “green” per scopi ben lontani dai reali interessi dei cittadini di oggi e di domani. Mentre continua il massacro sistematico dei paesaggi italiani, senza che ciò arrechi vantaggi rilevanti al miglioramento dell’equilibrio climatico.

Non possiamo voltare la testa dall’altra parte per garantirci sonni liberi da sensi di colpa. C’è una verità sgradevole che va guardata in faccia. Ormai i livelli di CO2 nell’atmosfera sono diventati così alti che i loro effetti drammatici sul clima perdurerebbero per molti, molti decenni anche se teoricamente fosse pensabile eliminare immediatamente ogni fonte di emissioni inquinanti (pari oggi a circa 35 miliardi di tonnellate annue). Proposito fin troppo evidentemente irrealizzabile. Le nazioni del mondo, invece di sprecare sempre nuove risorse economiche per sostenere le poco efficienti fonti produttrici di energie rinnovabili attualmente sul mercato, farebbero meglio a concentrare i loro sforzi con urgenza nella ricerca di metodi in grado di rimuovere dall’atmosfera l’anidride carbonica in una quantità maggiore di quella che vi viene annualmente immessa. Progettando anche serie strategie sul versante del risparmio energetico. Ovvio che tanto minore diventerà progressivamente l’emissione di CO2, tanto minori saranno gli investimenti necessari alla messa in funzione di tali accorgimenti tecnologici “mangia gas serra”. Queste tecnologie esistono, per lo meno all’orizzonte? Può sembrare fantascienza, ma molti studi sembrano propensi a dirci di sì. Anche se non spetta a noi valutarne gli effetti collaterali e  i risvolti problematici, a cominciare dai costi, siamo convinti che quella e non altre sia la strada obbligata per evitare il baratro. Nel frattempo, ma solo in tale prospettiva, si dovrebbe ricorrere alle energie “ green” che sfruttano il sole e il vento, come marginali alleate, sottoponendole però con scrupolosa attenzione al vaglio di altri e non negoziabili valori. Nella consapevolezza che l’unica via di uscita non passa attraverso la fede cieca nella capacità delle fonti rinnovabili di fornire all’ inarrestabile bulimia consumistica delle società umane la stessa quantità di energia fino ad ora prodotta dai combustibili fossili, ma attraverso una radicale, difficile, dolorosa  rivoluzione dei costumi, che smantelli a poco a poco  tutta la labirintica ragnatela di condizionamenti, pigrizie e bisogni indotti su cui si fonda la nostra fallace idea di progresso civile.

Se invece preferiamo restare abbarbicati alla via dello spreco, dell’aggressione all’ ambiente naturale, del disprezzo per i valori culturali (strettamente connessi al rispetto per la natura), ma senza doverne pagare le conseguenze in termini di desertificazione, di enormi crisi idriche, di emigrazioni di massa, di epidemie da inquinamento e povertà, di innalzamento del livello degli oceani, tanto varrebbe riprendere in considerazione il ricorso all’energia nucleare, che non produce emissioni di CO2. Potremo così continuare i nostri spensierati e pantagruelici picnic sull’orlo di un diverso vulcano.

 

 

Una soffocante muraglia rotante.

E’ un antico e radicato difetto dei nostri simili quello di confondere e sovrapporre i concetti di bello e di buono. Quasi che l’uno trascini automaticamente dietro di sé il secondo. O viceversa. In questo equivoco cadono anche a mio parere gli amici di Legambiente e di Greenpeace quando, in mancanza di argomenti più stringenti, sostengono che le pale eoliche abbelliscono i paesaggi identitari sui quali troneggiano, arricchendoli di un tocco di modernità. Entrambe queste associazioni – in altri campi benemerite – hanno trasformato le gigantesche torri degli aerogeneratori in un feticcio: l’icona indiscutibile della salvezza del Pianeta. Di conseguenza quelle torri gigantesche devono per interna coerenza essere anche belle.

Se il loro ragionamento non dipendesse da questo equivoco sarebbe un tantino difficile comprendere per quale ragione entrambe le associazioni abbiano lottato, anche in tempi non troppo lontani, contro lo stravolgimento dei paesaggi delle coste italiane, dovuto alla speculazione illegale delle seconde case e a quelle superfetazioni edilizie che allora esse stesse definivano come eco-mostri. Stravolgimento dal quale i paesaggi rivieraschi  avrebbero dovuto essere “arricchiti” grazie a un analogo soffio di modernità. E non è forse vero che Legambiente lotta con ogni mezzo lecito per limitare lo sfregio al paesaggio delle Alpi Apuane, compiuto dal moltiplicarsi delle cave di marmo? Mi piacerebbe sapere perché noi, mentre da un lato siamo considerati come validi alleati nella difesa dello skyline delle Apuane e delle Dolomiti, dall’altro veniamo descritti come i portatori di una visione del paesaggio naturale e storico viziata dal lezzo di una retrograda e morbida nostalgia. Ci definiscono ciechi nemici del progresso, proprio come sostenevano e continuano a sostenere gli speculatori che vorrebbero avere mano libera nella degradazione del Bel Paese. Forse i dirigenti delle due associazioni dovrebbero meditare su questa imbarazzante somiglianza.

Se vogliamo smontare l’ingenuo ma pericoloso assioma che il buono è anche bello, dobbiamo cominciare a interrogarci sulla validità del primo dei due termini. Le Pale eoliche sono davvero “buone”? Cioè rappresentano un’efficace e definitiva soluzione per contrastare il riscaldamento globale, dovuto alle emissioni di CO2 che attualmente hanno superato i 35 miliardi di tonnellate annue? Chi lo sostiene, contro l’evidenza (come spero di aver contribuito a dimostrare nei miei precedenti paragrafi), in realtà vuole solo assolversi dicendo, quando si infila nel letto, di aver fatto il possibile per fuggire dalla trappola che la specie umana si è costruita attraverso l’illusione dello sviluppo infinito. Cerca di garantirsi la coscienza a posto prima di addormentarsi, sperando di trovare la calza della Befana straripante di aria pulita e di comportamenti virtuosi la mattina successiva. Bene. La notizia che purtroppo dobbiamo dare a costoro è che la Befana non esiste e che il ricorso alle pale eoliche, per quanto invasivo possa essere, non sposterà nemmeno di un centimetro i termini del drammatico problema dell’effetto serra. Si potrebbe anche tacere, lasciando che essi continuino a cullarsi nelle loro infantili illusioni. Ma come si può farlo quando quelle illusioni hanno effetti tutt’altro che innocui e stanno causando per certo la più drammatica alterazione dei paesaggi italiani mai subita dal nostro paese nella sua storia millenaria?

Sto esagerando? Come ho già raccontato in precedenza, il prof. Mark Jacobson della Stanford University,  riconosciuto esperto mondiale di energie rinnovabili, ha dichiarato che l’Italia, per raggiungere il 26% di energia elettrica da fonti eoliche, dovrà adattarsi a riempire di aerogeneratori (alti più di 200 metri), una superficie pari all’intera regione Friuli Venezia Giulia. Per immaginarsi l’effetto finale basta snocciolare queste decine di migliaia di “eco mostri” lungo tutto l’arco delle elevazioni appenniniche. Non troveremmo più un paesaggio privo di quella soffocante muraglia rotante, spacciata, con una non lieve mancanza di pudore, come un’allegra “pennellata” di modernità. Questo per quanto riguarda il massacro del paesaggio identitario. 

Il responsabile delle energie sostenibili di Legambiente ha messo in campo l’opinione di due architetti per sostenere con il loro appoggio la bellezza degli aerogeneratori. Non mi scandalizza pensare che qualcuno possa giudicare un singolo aerogeneratore un affascinante esempio di design industriale. Magari anche due. O addirittura tre, in prospettiva. Ma qui stiamo parlando di migliaia e migliaia di manufatti identici e identicamente assertivi. Di fronte a una simile quantità trovo che abbia poco senso discettare sulla qualità estetica. Anche la più sublime opera d’arte se fosse ripetuta per un numero quasi infinito di volte si trasformerebbe in un’omologazione inaccettabile, a senso unico, degli ambienti che invaderebbe. Di grandi muraglie ce ne basta una. Oso dire che l’effetto devastante sarebbe stato lo stesso se tutte le linee di cresta appenniniche fossero state modificate da innumerevoli copie del duomo di Orvieto o della Torre di Pisa. Senza contare che queste due opere architettoniche sono alte neppure un terzo dei moderni aerogeneratori. E di conseguenza sarebbero meno visibili a distanza.

Tutto ciò detto, desidero ripetere quanto in precedenza ho già affermato: noi non siamo contrari per principio all’energia dal vento. Però crediamo sia opportuno ridimensionarne l’efficacia, che sarà sempre marginale, per concentrare gli sforzi dell’intera comunità internazionale nella ricerca di strumenti davvero adeguati alla neutralizzazione dell’effetto serra planetario. L’emergenza climatica non può essere utilizzata come lasciapassare per lo scardinamento dei valori naturalistici, storici, culturali del paesaggio italiano. Mettiamoci una buona volta intorno a un tavolo per decidere dove le pale eoliche possono essere installate senza irrimediabili offese al paesaggio e dove invece non dovranno venire innalzate né ora né mai. 

 

Carlo Alberto Pinelli