Una doppia morale: le ambiguità di un credo ambientale.

Poche settimane fa il sito dell'ANSA ha riportato la preoccupazione del Presidente di Legambiente Liguria per la concessione, rilasciata dalla Regione Liguria alla CET s.r.l. (Compagnia Europea per il Titanio - azienda estrattiva con sede a Cuneo), di un permesso triennale di ricercaper materiali solidi (titanio, granato e minerali associati) sulla terraferma per l'area del Monte Antenne finalizzato all'apertura di una miniera nel comprensorio del Beigua, in un'area ai margini dell'omonimo Parco Naturale Regionale.

 

Parco Naturale Regionale del Beigua (www.parcobeigua.it/)

 

Da decenni, nell'area specifica, è stato infatti identificato un giacimento di circa 400 milioni di tonnellate di titanio, il cui valore è stimato in 400-600 miliardi di Euro. Per dimensione si tratta del secondo giacimento in Europa.

Facciamo volentieri da cassa di risonanza al presidente di Legambiente Liguria, quando sostiene che si tratta di “un precedente pericoloso, preludio ad una attività insostenibile per impatto ambientale e lontana dai desideri di sviluppo delle comunità locali che da anni si oppongono a qualsiasi ipotesi di apertura di attività estrattive", e che l'iniziativa vanificherà un pluriennale “lavoro su un modello di sviluppo basato su agricoltura sostenibile, manutenzione dei boschi, turismo di qualità e consorzi sempre più attenti alla filiera corta”, a danno di “biodiversità e valori ecologici e paesaggistici oltre che mettere a repentaglio la salute di chi vive nel territorio”.

Ma chiediamoci intanto a che serve il titanio, e perché ne sia conveniente l'estrazione.

 

Un metallo critico

Il titanio si trova in natura sotto forma di minerali come ilmenite, rùtilo o altri ancora.

Nel 2020 l'Unione Europea lo ha inserito nel novero dei metalli critici: è infatti uno di quelli per cui l’UE dipende totalmente dalle importazioni. Lo si vede dal grafico sottostante, in cui (attenzione) la percentuale di produzione assegnata all’Europa (indicata in verde) si riferisce alla sola Norvegia (877.000 t nel 2017), che però NON fa parte dei 27 paesi UE. Questi, nel 2018, hanno dovuto infatti importare oltre 1,5 milioni di tonnellate di titanio, di cui oltre 63.000 tonnellate hanno rappresentato il fabbisogno italiano.

 

Aree globali di estrazione del titanio a livello globale dal 1970 al 2017. Fonte www.materialflows.net

 

Il titanio è uno dei metalli al centro della ricerca sui nuovi materiali per gli anodi delle batterie agli ioni di litio. Nelle batterie per i veicoli elettrici l’utilizzo del titanio migliora la densità di energia, la durata e la sicurezza, ma soprattutto i tempi di ricarica. Le celle con materiali anodici a base di ossido di titanato di litio appaiono infatti un’interessante alternativa nelle applicazioni in cui la densità di potenza è il criterio di progettazione critico: offrono una migliore stabilità del ciclo e una buona accettazione della carica anche a temperature inferiori a 0° C. Ricordiamo che oggi gli anodi delle batterie sono realizzati utilizzando prevalentemente la grafite, la cui produzione è quasi integralmente sotto il controllo cinese.

Il titanio è un materiale chiave anche nei componenti strutturali delle future auto elettriche, ed è un elemento delle celle a combustibile alimentate ad idrogeno che costituiscono uno dei principali, possibili sviluppi della mobilità senza combustibili fossili.

Le leghe a base di titanio garantiscono elevate proprietà meccaniche e resistenza alla corrosione con solo la metà del peso dell'acciaio e delle superleghe a base di nichel. Il titanio sta trovando infatti anche applicazione negli acciai ad alta resistenza utilizzati nelle turbine eoliche, poiché consente importanti risparmi sui costi di lavorazione e significative riduzioni dell'impronta di CO2 del componente.

Ed è largamente utilizzato nella geotermia, circa 6-10 volte in più rispetto all’energia eolica: la generazione di energia geotermica richiede leghe di acciaio con un'elevata percentuale di titanio, per problemi di resistenza al calore e alla pressione.

Adesso occorre fare un salto verso sud di migliaia di km, dall'europea Liguria al Mozambico.

 

La miniera Haiyu a Nagonha, nel maggio 2016 (© Amnesty International).

 

Our lives means nothing? (Le nostre vite non contano nulla?)

Il punto interrogativo, nel titolo, lo abbiamo messo noi.

Nagonha è un villaggio rurale di pescatori, circa 180 km a est della città di Nampula in Mozambico, in cui 1.300 persone circa vivono in 236 capanne. Il villaggio si trova all'interno di un'area in concessione mineraria, aggiudicata nel 2011 alla società Haiyu Mozambique Mining Co. Lda, controllata della Hainan Haiyu Mining Co. Ltd, con sede in Cina1.

Haiyu ha iniziato a estrarre minerali, in particolare ilmenite, titanio e zircone, circa 3 km a nord del villaggio, continuando verso sud e avvicinandosi a esso, radendo al suolo dune di sabbia e vegetazione, scaricando rifiuti minerari sulla zona umida che vi si trova, e seppellendo due grandi lagune e le vie navigabili che le collegavano al mare.

Nel 2015 un’inondazione improvvisa ha distrutto il villaggio, danneggiando seriamente o distruggendo quasi tutte le abitazioni. La comunità locale si è così trovata di fatto priva delle proprie risorse essenziali, fornite anche dalle zone umide locali: oltre al pescato, acqua potabile, piante medicinali, frutta selvatica e legna da ardere.

Un’indagine di Amnesty International (“Our lives means nothing”), condotta anche sull’analisi sequenziale delle immagini satellitari, ha dimostrato che l’alluvione è diretta conseguenza delle massicce quantità di materiali sabbiosi scaricati da Haiyu nelle aree circostanti.

Haiyu Mozambique Mining, ritenendo infondata l’accusa di Amnesty, si è comunque rifiutata di risarcire gli abitanti del villaggio, rimasti senza tetto e senza risorse. A chiudere il cerchio, l’inerzia delle autorità locali ha lasciato la popolazione di Nagonha in balia delle attività minerarie di Haiyu, che continuano a rappresentare un grave pericolo di ulteriori catastrofiche inondazioni, che potrebbero cancellare definitivamente Nagonha dalla carta geografica. Il pesante indebitamento del Mozambico nei confronti della Cina, in cui ha sede la holding di Haiyu, certo non ha aiutato a riequilibrare il piatto della bilancia a favore dell'ambiente e delle comunità locali.

 

Una doppia morale

E' sufficiente la prospettiva di un...”occidente Green” per impedirci ora di usare, in difesa di Nagonha, le stesse parole spese da Legambiente per l'area e la comunità del Parco Naturale Regionale del Beigua? Se riguarda una comunità del Mozambico, non dobbiamo porci il problema di “un'attività insostenibile per impatto ambientale e lontana dai desideri di sviluppo delle comunità locali che da anni si oppongono a qualsiasi ipotesi di apertura di attività estrattive"? Solo a casa nostra dovremmo avere a cuore “biodiversità e valori ecologici e paesaggistici” o “la salute di chi vive nel territorio”? Attenzione, le emissioni annue di CO2 per persona,  in Mozambico, sono di 0.3 t, mentre in Italia sono di 5.2 t, cioè 17 volte superiori2. Che facciamo, amici di Legambiente, compensiamo?...

E ci viene da chiedere perché queste meritorie difese dei valori del territorio non vengano mai prese da Legambiente quando a devastarlo sono le centrali di produzione di energia eolica (anche in Liguria...), che contribuiscono per una frazione irrisoria al fabbisogno energetico. Perché il bilancio ambientale di questi impianti non viene mai analizzato per tutta la filiera, dai trasporti dei componenti ai disboscamenti per l'installazione degli impianti, dall'estrazione delle terre rare per i magneti permanenti, a quella del rame, o del carbone metallurgico per l'acciaio, dalla fusione stessa delle centinaia di tonnellate di acciaio necessario per le turbine, ai costi ambientali per lo smaltimento del vetroresina delle pale, vetroresina il cui destino non è altro che finire interrate da qualche parte? Forse perché Legambiente è connessa a doppio filo ai signori del vento, da oltre un decennio?

 

Facciamoci un po' di domande...

...prima di spacciare per dogmi dei quarti di verità.

Premessa: siamo quindi tutti d'accordo che l'estrazione (per esempio) del titanio abbia un impatto ben difficilmente sostenibile.

Ma... vale solo qui da noi? In Mozambico va bene? E' un problema da niente se laggiù si ritrovano con la “casa” spazzata via, la terra distrutta e la prospettiva di morire di stenti?

Che dire delle compagnie minerarie che devastano le foreste pluviali o le lagune di Atacama, e rendono inutilizzabile l'acqua altrui, per provvedere alle colossali quantità di rame, litio, nichel o di altri metalli necessari alle “tecnologie verdi”, finalizzate per “mettere a posto” la nostra (presunta) coscienza ambientalista? Di queste "tecnologie verdi" gli abitanti di quei luoghi non si gioveranno mai, vuoi per indigenza, vuoi perché nella loro vita, spesso integrata nell’ambiente circostante (certo molto meglio di quella delle nostre città, grandi o piccole), devono e possono farne a meno. Pensiamo davvero che le popolazioni andine, o tropicali, o semplicemente le comunità rurali di qualsiasi parte del mondo, possano farsi una ragione delle attività estrattive che li assediano solo per la prospettiva di usare un piano di cottura a induzione o di sedersi al volante di una Tesla da 50.000 euro (la più economica)?

Pensiamo davvero che le popolazioni rurali, anche italiane, debbano farsi una ragione dello stravolgimento dei requisiti ambientali e paesaggistici di quella che è casa loro, e che in quanto tale ha un suo valore, anche economico, in Liguria, in Puglia, in Toscana, in Sardegna, in Campania, in Calabria, in tutta Italia, per favorire il business delle presunte “rinnovabili”, che mette a repentaglio continuità e affidabilità della fornitura elettrica per tutto il sistema produttivo (e anche sanitario)?

Vogliamo davvero intraprendere una decarbonizzazione della filiera produttiva? Non è un po' sbrigativo scaricarne gli oneri sulle popolazioni meno rappresentate, alimentando facili profitti e scorciatoie di un'elite pseudo-industriale debitamente affiancata dai rispettivi opinion maker a libro paga? Non sarebbe invece il caso di studiare e attuare una pianificazione organica e razionale di questa decarbonizzazione, che per il momento non è altro che una nuova versione del solito colonialismo nato cinque secoli fa?

E non sarebbe il caso di partire dal dato davvero critico, cioè la disponibilità (tutt'altro che infinita) delle materie prime estraibili necessarie al “Green Deal”? Che sarebbe opportuno considerare che, nella “grande” Europa a 27, NON abbiamo quelle materie prime (salvo rari casi...) e tecnologie necessarie al raggiungimento (ipotetico) della neutralità climatica. E le dobbiamo comprare da chi, facendo tesoro dell'esperienza del Celeste Impero, sta realizzando colossali profitti, grazie a centrali a carbone e altre attività che a casa nostra ci schifano, e che riversano in atmosfera circa la metà delle emissioni globali?

 

Andrea Benati

Giovanni Brussato

 

 

1. Si veda: "Energia verde? Prepariamoci a scavare", Ed. Montaonda

2. Fonte World Bank