Miseria e irrealtà nella transizione green

Le bollette di Greta, che stanno arrivando e arriveranno sempre più gravose nelle prossime settimane ad imprese e cittadini, riporteranno agli europei, assieme alla minaccia del ritorno della miseria, anche l'ormai smarrito senso della realtà.

 

Londra 1947. Cittadinanza in coda per ottenere il carbone razionato dalle autorità. Foto Harry Todd/Fox Photos/Getty Images

 

All'inizio di quest'anno, per adempiere ad uno degli infiniti obblighi burocratici imposti dalla commissione europea per il conseguimento della "neutralità carbonica" al 2050, venne trasmessa a Bruxelles la "Strategia nazionale di lungo periodo". Il documento governativo prevedeva in particolare una riduzione "spinta" della domanda di energia (al 2050 consumi finali -40%), "grazie soprattutto al calo della mobilità privata e dei consumi civili", e un cambiamento "radicale" del mix energetico a favore delle rinnovabili (Fer all'85-90% dei consumi) coniugato ad una "profonda elettrificazione degli usi finali" (generazione elettrica raddoppiata a 600-700 TWh da raggiungere "grazie al dispiegamento di fonti sinora non sfruttate" e moltiplicando di 10-15 volte la capacità solare fino a 200-300 GW (corrispondenti, per meglio intendere di che cosa stiamo parlando, a 6.000 chilometri quadrati ricoperti di pannelli fotovoltaici). In tale contesto, "i sistemi di accumulo elettrochimico dovrebbero arrivare a 30-40 GW" (4-5 volte quanto previsto dal Pniec al 2030). Prima della pandemia la potenza complessiva dei sistemi di accumulo installati in Italia era di 103 MW, valore che quindi dovrebbe essere moltiplicato per 300-400 volte.

Almeno il 25-30% dell'elettricità prodotta, "in particolare nella fase di overgeneration", sarà destinata alla produzione di idrogeno. Nel già lunare Pniec, trasmesso all'UE appena un anno prima - ma prima che il governo tedesco (finito in un vicolo cieco con l'energia eolica super incentivata che viene prodotta quando non serve e deve essere regalata all'estero) lo proponesse improvvisamente come Deus ex machina nel giugno del 2020 - all'idrogeno c'era solo un timido accenno, per evitare di cadere nel ridicolo, espresso peraltro in termini estremamente generici e cautamente ottativi: "Un contributo potrebbe essere fornito dall'idrogeno, anche per i consumi non elettrici".

Sempre di più e sempre peggio, dunque, e senza più pudori. Questo nuovo, incredibile documento del governo italiano fu a suo tempo volutamente ignorato da tutta la stampa nazionale, per non rischiare commenti irridenti, controproducenti in tempi di gretismo trionfante, e, soprattutto, per evitare imbarazzi futuri, all'apparir del vero.

Il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge aveva coniato la formula "volontaria sospensione dell'incredulità" al fine di ignorare le incongruenze nelle creazioni artistiche e godere appieno della poesia, del romanzo, del teatro eccetera. Ma sempre e comunque di un'opera di fantasia; e la sospensione dell'incredulità doveva limitarsi a quel momento di intimo godimento estatico. E' perciò evidente che, nel caso del raggiungimento della "neutralità carbonica" nel 2050, non solo non siamo più nel campo della politica, energetica o economica che sia, ma neanche in quello dell'immaginazione artistica, e dunque orbitiamo in una sfera di pura e semplice ideologia, se non addirittura di una pseudo religione neo pagana.

Per la transizione green, infatti, la sospensione dell'incredulità pare non finire mai e contagia anche chi dovrebbe avere completato il ciclo vaccinale contro le corbellerie, soprattutto in un settore vitale per l'economia come quello della politica energetica.

Proseguendo in questa non-logica, in maggio venne presentato un rapporto dell'Agenzia internazionale per l'energia (Aie) che sosteneva il processo mondiale di decarbonizzazione. "Nessun nuovo giacimento di petrolio e gas naturale è necessario", si leggeva nel piano Aie di riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2050. Una presa di posizione drastica, fino ad allora appoggiata solo dagli ambientalisti più gretini. Come spiegato da Sissi Bellomo sul Sole, Il rapporto contraddiceva l'allarme che la stessa agenzia dell'Ocse aveva lanciato sul rischio di carenze e forti rincari del greggio. Nella Roadmap per la decarbonizzazione, invece, l'Aie, fondata in seno all'Ocse dopo lo shock petrolifero del 1973, si spingeva fino a raccomandare lo stop immediato di ogni investimento in idrocarburi: una presa di posizione estrema e invero sorprendente da parte di un organismo che era nato (e viene lautamente finanziato. Ndr) con lo scopo di evitare carenze di greggio, un ruolo che però stride con l'aspirazione di farsi alfiere della transizione energetica. L'Aie aveva elaborato la Roadmap, proseguiva la Bellomo, su incarico di Alok Sharma, parlamentare britannico destinato a presiedere la Cop26 di Glasgow. Fra le tappe proposte dall'Aie molte apparivano già allora ardue se non utopiche, nonostante fino a maggio 2020 l'Agenzia registrasse con allarme "il rischio che i tagli di oggi negli investimenti nel settore idrocarburi conducano a futuri squilibri sul mercato".

Da questa improvvisa reincarnazione dell'Aie, osservava allora Giuliano Garavini sul Fatto Quotidiano, è uscito un esercizio a metà tra la scienza delle previsioni sociali stile Asimov e le profezie di Nostradamus, in particolare quando confida che dal 2030 metà delle riduzioni delle emissioni di CO2 avverrà da tecnologie "in via di sviluppo". Per la giustizia sociale niente paura perchè, nonostante una sempre maggiore tassazione del carbonio, verranno creati milioni di posti di lavoro nel settore green.

La liberalizzazione del settore energetico in Europa è riuscita a generare, insieme, aumenti dei profitti per le imprese e delle bollette per i consumatori. Il sempre più massiccio ricorso alle rinnovabili incentivate (che sono costate all'Italia, fino al 2012, circa 220 miliardi di euro), combinato ad altrettanto massicci investimenti a loro ancillari in nuove infrastrutture, hanno incrementato la povertà energetica e la deindustrializzazione. Perciò affermare, come fa l'Aie, che una modesta iniezione di 40 miliardi di investimenti all'anno possa garantire l'accesso all'energia del resto del mondo, a partire dall'Africa, appare surreale. Concludeva sconsolato Garavini: la storia ci dimostra che, a livello globale, aumenti di Pil sono andati di pari passo con aumenti delle emissioni di gas serra. Anche se miracolosamente diminuisse l'utilizzo di combustibili fossili, aumenterà il consumo di ogni altra risorsa naturale. Raddoppiare la produzione materiale significa raddoppiare la crisi ecologica, non risolverla.

Ma non importa, dobbiamo fare qualcosa, a tutti i costi: la Terra è malata, degradata; gli ecosistemi stanno per collassare; mutamenti climatici e cataclismi inauditi stanno seminando e semineranno sempre più morte e distruzione. E i colpevoli siamo solo e unicamente noi Occidentali, sperperatori di risorse, consumatori accaniti, inquinatori seriali. Per causa nostra le generazioni future riceveranno in eredità un ambiente impoverito e saranno costrette a rivedere drasticamente il loro stile di vita, se non addirittura a lasciare il pianeta. Così recitano i fanatici dell'Apocalisse, invocando, in nome di fosche previsioni ripetute con insistenza, la necessità di rinunce immediate e spietate autopunizioni collettive. Tutto questo, fa notare il filosofo francese Pascal Bruckner, rientra in un canovaccio già noto, dai tempi del millenarismo cattolico con il suo contorno di pauperismo e culto della frugalità, fino agli strali marxisti contro il capitalismo e al disprezzo terzomondista per l'Occidente sfruttatore. Radici profonde, dunque, ma anche altre radici da poco tempo sopite, ridestate dalla pioggia di primavera stimolata dal surriscaldamento del pianeta.

Da qui la politica climatica dell'UE, da qui Greta, da qui la riapparizione della congrega di invecchiati, ma non rinsaviti, sessantottini che vogliono combattere il capitalismo con ogni mezzo e che sobillano le sprovvedute ma presuntuose ragazzine delle piazze mediatiche globalizzate. Da qui la solitaria crociata dell'Europa, che appare sempre più isolata, orgogliosa di una leadership proclamata ma sostanzialmente ignorata da tutti. La sua ormai unica forza consiste nell'essere un mercato di 450 milioni di abitanti. La sua influenza su questioni decisive, se opportunamente indirizzata, potrebbe essere enorme. E' il cosiddetto «Brussels effect», l’effetto che fa sì che gli standard europei diventino standard mondiali proprio perché adottati da chi non vuole rinunciare a un mercato così importante.

Un'Europa oggi fermamente convinta che aggressive politiche climatiche, ancorchè molto costose, porteranno ad una radicale e rapida riconversione delle economie europee verso un nuovo modello di sviluppo e verso nuovi stili di vita, come esplicitamente affermato dal vicepresidente della commissione Ue Timmermans.

Non c'è niente di cui meravigliarsi. E' la legge della democrazia. Ursula Von der Leyen interpreta un Parlamento dove un terzo è ambientalista, nota in un'intervista su Panorama Davide Tabarelli di Nomisma Energia: abbiamo una classe politica che idolatra la decrescita felice. E' logico che si vada verso un suicidio economico. La vera catastrofe è la morte dell'economia. In Italia, dove il M5S, partito dalle scie chimiche e dalla pseudo scienza, è tuttora il gruppo parlamentare più numeroso, votato alle ultime elezioni da un terzo degli elettori, si rischia ancor di più. L'approccio green è diventato fideistico, non scientifico.

Fideistico ma non solo, a dire il vero. Le politiche energetiche prevalenti, affermatesi per contrastare l'aumento delle temperature medie, sono guidate da un mix di ignoranza e di sudditanza alle lobbies dell'industria elettrica mondiale. Quest'ultima dispone di una serie di intellettuali organici della disinformazione, che ripropongono posizioni che sono tutt’altro che nuove e che hanno largo seguito in ambito accademico e scientifico, con ricadute politiche in genere espresse in termini assai più approssimativi e folcloristici. Da qui la demagogica legge Ue per il clima che rende legalmente vincolanti i puerili obiettivi del taglio del 55% delle emissioni entro il 2030 (Fit for 55) e della neutralità climatica entro il 2050.

Da qui i lacci e i lacciuoli imposti dalla commissione Ue al mercato. Tutta una serie di filiere industriali sottoposte a regolazioni finora inusitate. La Border tax. Addirittura una "tassonomia" per decidere che cosa è Bene - e deve continuare ad esistere - e che cosa no: un'assurdità perfino per un pianificatore maoista del Grande Balzo in avanti. "Tassonomia". Quasi una bestemmia per gli americani, perfino per Kerry. Gli Stati Uniti non aderirono al protocollo di Kyoto proprio in nome della superiorità del mercato nel contrasto al cambiamento climatico, piuttosto che di regole calate dall'alto.

Ma ormai l'Europa, proprio su questi capisaldi, non può più arretrare. E' troppo compromessa.

La follia dirigistica di contrastare l'innalzamento delle temperature non con politiche che emergono dalla contrattazione nel mercato e con il mercato, denuncia il professor Sapelli sul Sussidiario, ma con decisioni tecnocratiche legittimate solo dallo stordimento ideologico, ha appena iniziato a produrre i danni immensi di una transizione non contrattata del tipo di quella che sta inverandosi in una Ue sempre più simile all'Urss. I provvedimenti per la transizione verde imposti dalle tecnocrazie europee (sorrette dal landscape, come lo definisce Sapelli nel suo stile flamboyant, simbolico ed ideologico che fa del clima un totem sacrificale) sostituiscono fonti affidabili e economiche con altre che non sono rodate e sono costose. Il fine da ricercare (l'eterogenesi dei fini...) cessa di essere il clima e diventa la "decarbonizzazione integrale". Il fatto che una simile opzione appartenga a un dibattito per così dire "normale" sarebbe già di per sè preoccupante.

L'UE marcia spedita sulla transizione energetica e non mostra ripensamenti nemmeno di fronte all'esplosione dei prezzi dei diritti sulla CO2, un mostro partorito dalle COP Onu ma reso operativo solo dai burocrati di Bruxelles. Quella è stata la miccia che ha innescato la crisi dei prezzi energetici, destinata a trasformarsi presto in crisi economica tout court. Non avevamo certo bisogno di questi segnali di difficoltà per ipotizzare il fallimento di quelle politiche basate esclusivamente sulle rinnovabili e sull'abiura dei combustibili fossili. Resta però incredibile che in questo scenario nessuno osi mettere in discussione una transizione energetica costosissima, come se fossimo ancora in piena deflazione e non fosse passata almeno una decina d'anni di non investimenti in idrocarburi, mentre si moltiplicano i costi burocratici per le imprese. Come se la produzione e le imprese fossero un dato di partenza scontato e il costo dell'energia fosse una variabile indipendente. Se ne discute troppo poco, ma la chiusura delle fabbriche con le nuove impennate sul prezzo dell'energia sarà la vera apocalisse.

Il carrozzone mediatico-politico preferisce il velo di Maya del Covid, che nasconde la realtà.

Molte cose cambieranno quando i cittadini europei cominceranno a subire le randellate delle bollette. Specie quando si dovrà tornare ad un certo rigore di bilancio con l'addio alla cuccagna dei deficit pubblici troppo facili, che hanno permesso ai governi italiani non solo di sopravvivere in questi difficili anni di pandemia, ma persino di aumentare i consensi. Per il momento l’unico problema è lo scontento di una fetta crescente della popolazione e dell’opinione pubblica che forse non riesce a mettere insieme tutti i pezzi del mosaico della transizione ecologica, ma che capisce benissimo che arrivare alla fine del mese è sempre più difficile.

Avere annunciato, prima che i mercati energetici fossero ristrutturati, il trasferimento sui consumatori dei vantaggi delle rinnovabili dando per acquisita la transizione solo perché si erano fissati degli ambiziosi obiettivi di riduzione delle emissioni per compiacere l’elettorato senza una complessiva analisi dei costi e benefici, si sta rivelando per quello che è: un piano sconsiderato. E così adesso, allarmati dalla insostenibilità economica e dalle ricadute sociali, e preoccupati di perdere il consenso dei cittadini, i decisori sono pronti a rimangiarsi molto e spingersi anche oltre. Ne abbiamo vista un'esemplare dimostrazione con l’impennata della bolletta energetica di questi mesi, che ha costretto il governo Draghi ad un immediato intervento, per non dissipare il sostegno e la fiducia dell’opinione pubblica nel Green Deal. Ma anche la fiducia costa, e se il Pil decrescesse finirebbero anche le risorse per comprarla.

L'Ue inebriata dall'ideologia della transizione ecologica, anche in ragione della crescente influenza dei Verdi in Germania, guarda a scenari di lungo termine, senza rendersi conto del muro contro cui famiglie e imprese stanno per andare a sbattere. Enrico Quintavalle, responsabile dell'ufficio studi di Confartigianato, ammonisce che, se il rialzo dell'inflazione si rafforzasse e si prolungasse nel tempo, si ridurrebbe il potere di acquisto delle famiglie e, contemporaneamente, si anticiperebbe un orientamento restrittivo della politica monetaria. Una possibile, pericolosa sincronizzazione di una deflazione monetaria, anche senza essere accompagnata dalla temuta riattivazione delle regole europee di bilancio, avrebbe ulteriori effetti recessivi, esponendo l'economia italiana, oltre alla stagnazione economica da costi, anche ai rischi di una crisi del debito sovrano.

Ma in realtà il problema, nell'immediato, non è solo di costi e di crisi delle finanze pubbliche. Il paventato rischio di blackout in Francia deve far riflettere sulla situazione del nostro Paese. Ci spiegava Francesco Del Pizzo di Terna in un'intervista su Panorama che quando fa freddo importiamo 4 GW e tra i grandi Paesi europei siamo quello con il maggior deficit di potenza installata affidabile, ossia programmabile. Dal 2005 non si investe in nuove centrali tradizionali e dal 2013 abbiamo dismesso impianti programmabili per 14 GW. In più abbiamo come obiettivo al 2025 di chiudere le centrali a carbone e saranno altri 7,2 GW che mancheranno all'appello. Così ci troveremo a dover affrontare una riduzione di capacità termoelettrica nell'ordine dei 20 GW. Se confrontati con la domanda di picco, circa 60 GW, stiamo parlando di un taglio del 30%. Ogni giorno che passa dimostra sempre più che, in caso di bisogno, è inutile fare affidamento su tutto quell'eolico e quel FV che è stato nel frattempo installato dissennatamente.

Quando il tuo approvvigionamento di gas, e quindi la tua sicurezza energetica, dipende dall'estero, devi avere la forza di mandare a quel paese sia Greta sia i suoi accoliti al governo e nei media, riconoscere la transizione ecologica come business del momento e operare sull'esistente.

Avere energia e materie prime abbondanti e a buon mercato oggi come 70 anni fa, dopo la Seconda guerra mondiale, è condizione necessaria per qualsiasi ripresa. L’altra è un ambiente con meno burocrazia possibile, attento ai profitti nel lungo periodo delle imprese in libera concorrenza tra loro ed al benessere dei propri cittadini che partecipano, più o meno direttamente, e devono godere dei successi dell'economia. Invece l'economista Alessandro Penati fa osservare che, col Green deal, si è persino abrogato di fatto la politica comunitaria contro gli aiuti di stato, uno dei pilastri della nuova Europa post bellica: ora, con la giustificazione di sostenere la transizione verde, i governi fanno a gara a sussidiare con finanziamenti agevolati le imprese nazionali, e le rinnovabili elettriche in particolare, creando indebiti vantaggi rispetto alla concorrenza.

La commissione potrebbe minacciare la commissione di agire al di fuori dai Trattati. E, se volesse essere coerente, dovrebbe aprire davanti alla Corte di Giustizia una procedura d’infrazione contro se stessa. Sarebbe coerente con la non-logica che guida le istituzioni europee da almeno dieci anni. Questa, osserva ironico il costituzionalista Alessandro Mangia, è la classe dirigente che sta a Bruxelles e che guida un continente guardando tutti con sufficienza. E che distribuisce minacce, pagelle e sanzioni in nome di una sua immagine fantasiosa dell’economia, che sono il segno che l’edificio senza fondamenta eretto a fatica nel ’92, dopo la riunificazione tedesca, non tiene più. La verità, arriva a dedurre Mangia, è che l’Europa è un’istituzione che si sta sgretolando velocemente.

Pensare che l’Unione europea, che non ha una politica estera comune, possa risolvere il problema energetico dei Paesi europei è peggio che illusorio; il rischio, semmai, è che si moltiplichino le fratture interne. L’Europa in queste settimane è stata costretta ad osservare ogni giorno con preoccupazione le consegne russe di gas senza alcuna certezza di breve-medio termine, mentre ancora vaneggia di transizioni verdi che non si può permettere esattamente come non se le possono permettere Cina, Russia o India, che almeno ammettono questa impossibilità. La transizione verde gestita da Bruxelles, che dovrebbe unire l’Europa, sta ottenendo l’effetto contrario, mentre il mondo assiste a una dimostrazione di inconsistenza difficile anche solo da credere. La candida dichiarazione di Draghi, nella conferenza stampa di fine anno, sull'impotenza europea di ritorsioni nei confronti della minaccia militare russa all'Ucraina ha colpito di più l'opinione pubblica anglo-sassone che quella continentale. Caricare l’Unione europea di una sfida sull'energia che richiede tempi brevissimi è distruttivo. Sarebbe molto meglio, per l’Europa in primis, che i singoli Stati, che sono attrezzati, facessero, in questa specifica emergenza, ciascuno per conto proprio.

La soluzione del problema del recupero e del mantenimento della sicurezza energetica non è semplice perché richiede molto tempo; richiede l’apertura di nuovi impianti che non possono sopravvivere se i costi energetici sono questi. La prima reazione dovrebbe essere difendere quello che c’è, e invece quello che c'è oggi chiude schiacciato da costi insostenibili e da fardelli burocratici.

Estrarre gas non è facile come l’immissione di liquidità della Banca centrale europea; esige anni ed investimenti ingenti. Dopo troppi anni di investimenti ridotti al lumicino perché bisogna decarbonizzare, molti Paesi europei si rifiutano di spiegare ai propri cittadini che la rigidità, giusta o sbagliata che sia, verso la Russia e la transizione verde ci consegnano uno scenario complicato: le imprese europee, come minimo, non potranno programmare la loro produzione. A proposito di Banca centrale europea, Paolo Annoni, che nei suoi articoli quasi quotidiani sul Sussidiario è il più assiduo fustigatore delle follie green, segnala che la Bce, in sovrappiù, ha ricevuto il compito di impegnarsi per il clima, con opzioni che sono assolutamente politiche. Nei fatti, i soldi di tutti sono messi al servizio, e svalutati via inflazione, di obiettivi politici mascherati da scelte “scientifiche”. La Bce si avvia dunque a scrutinare i bilanci delle banche europee per misurare il rischio climatico. Vuol dire che trovare in Europa una banca disposta a finanziare un progetto energetico tradizionale sarà estremamente complicato.

Un'autentica pazzia, proprio mentre il gas rischia di non arrivare più in quantità sufficienti. Pazzie su pazzie, senza più freni. E' allora necessario pretendere un ritorno alla ragionevolezza e al confronto intellettuale. Solo gli intellettuali e i ricercatori indipendenti possono produrre una svolta sempre più necessaria. Per far questo sono indispensabili élite nuove e alcune pre-condizioni, di cui tratteremo altrove.

Occorre però, nell'immediato, essere consapevoli degli insanabili limiti delle fonti rinnovabili non programmabili, la cui fisiologica intermittenza oggi richiede, come l'attuale drammatica esperienza dell'esplosione dei costi dell'energia elettrica sta dimostrando, che al loro utilizzo si affianchi un oculato ricorso a fonti tradizionali ad impatto più contenuto quali il gas naturale. A ciò si dovrebbe accompagnare, nel breve periodo, un'ulteriore promozione dell’efficienza energetica in tutto il mondo, ispirandosi proprio al virtuoso modello dell'industria italiana. Tutto questo permetterebbe di realizzare fin da subito enormi riduzioni di emissioni globali di gas clima-alteranti, in modo tale da guadagnare tempo, in attesa di pervenire a nuove tecnologie chiave di cui il settore energetico ha bisogno ma che, come fatto rilevare anche dall'Agenzia Internazionale dell'Energia nel suo recente report, non sono ancora disponibili. Sarà infatti necessaria un'ampia gamma di tecniche e metodologie che, sempre secondo l'Aie, sono in fasi molto diverse di sviluppo. La priorità della politica energetica italiana, europea e mondiale per la transizione - e l'immenso sforzo finanziario che ciò comporterà nel medio periodo - non dovrà quindi essere la proliferazione incontrollata di impianti di rinnovabili elettriche, quanto piuttosto la ricerca e lo sviluppo di queste nuove tecnologie davvero alternative alle fonti tradizionali e necessarie per soddisfare gli ambiziosi obiettivi che ci siamo riproposti.

Facciamolo mettendo - da subito - fine alla retorica del "continente climaticamente neutro" nel 2050. Perchè si compia la rivoluzione energetica sarebbe il caso di arrivarci, al 2050, vivi e non morti di inedia o assiderati. Tenendo sempre presente chi siamo e da dove veniamo, il sistema di valori della nostra civiltà industriale e l'importanza di un'economia basata sulla facile disponibilità di energia a basso costo che ci ha permesso di raggiungere, per la prima volta nella storia umana, il benessere diffuso e di condividerlo con il resto del mondo. La nostra civiltà industriale dipende dagli idrocarburi per tantissimi aspetti che trascendono la mobilità, la luce o il gas. Non seghiamo il ramo sul quale stiamo comodamente appollaiati prima di averne trovato uno ancora più comodo. Ci vorranno generazioni di sforzi e di tentativi, ma, se siamo arrivati fin qui uscendo dalle Età Oscure, ce la faremo anche stavolta, a patto di mantenere, per muoverci in territori in gran parte ignoti, la razionalità e quelle stesse bussole culturali adoperate allora.

Alberto Cuppini