Qualche sassata nello stagno europeo della politica made in Germany delle rinnovabili elettriche

Gli errori principali della SEN di Gentiloni-Calenda sono stati riproposti nel recente Piano Energia Clima (PEC). Il PEC prevede 184 miliardi di euro di investimenti, cioè il quintuplo di quello che aveva vagheggiato a fine 2017 Calenda nella sua SEN. E' però facile prevedere che la spesa totale potrebbe essere, a regime, addirittura il doppio dei previsti 184 miliardi (determinando, tra l'altro, un'ulteriore pesante riduzione di competitività delle imprese italiane, in particolare quelle manifatturiere, esposte alla concorrenza internazionale), da aggiungere ai 230 già stanziati solo per gli incentivi alle Fer elettriche. Alla fine risulterà un impegno pro capite complessivo nell'ordine dei 10 mila euro, una cifra da capogiro che ciascun italiano, in media, dovrà sopportare, senza peraltro ottenere alcuna riduzione delle emissioni globali clima-alteranti, destinate ad aumentare a dismisura in tutto il resto del mondo tranne che in Europa. La politica europea avrebbe potuto essere più efficace se si fosse basata su un solo semplice target di riduzione delle emissioni. Il dover rispettare obiettivi di secondo ordine, come la percentuale di energia da rinnovabili sui consumi, potrà rendere meno efficace, più costoso (l'Italia già nel 2016 è stata prima tra i Paesi del G20 nei prezzi finali dell’elettricità all’industria) e meno tempestivo lo sforzo verso l’obiettivo primario. Interesse nazionale, benessere della popolazione, profitti delle imprese non possono essere ignorati in nessun caso, pena la castrazione energetica della Nazione e la rivolta degli italiani. Necessario non affidarsi più, per affrontare il problema, nè ai cavillosi regolamenti dei tecnocrati della Commissione europea ad egemonia tedesca nè al pensiero unico dell'integralismo ambientalista a cui si è ispirata la COP21 di Parigi. Anche in Germania si comincia a capire che i politici, nonostante i danni evidenti per il Paese, "non mostrano alcuna propensione a correggere il corso intrapreso. Il motivo potrebbe essere che una potente lobby verde trae enormi vantaggi da questa politica e impedisce qualsiasi cambiamento. Spetterebbe agli elettori convincere i politici a mostrare a questa lobby il cartellino rosso e perseguire una politica migliore contro il cambiamento climatico". Tra un mese e mezzo si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo. Il tema principale, oggi, è salvare l'Unione da se stessa, da regole troppo stringenti, in particolare da quel misto di ordoliberismo e neomercantilismo che la sta soffocando. E' assolutamente indispensabile cambiare l'Europa per non sfarinarla. Se si confermassero i rapporti politici in essere, lo sfaldamento già avviato sarebbe destinato ad accelerare. Il primo segnale, dopo le elezioni, per dimostrare che la rotta è cambiata, dovrebbe essere l'immediata abolizione del Clean Energy Package, a cui dovrebbe seguire un diverso approccio europeo verso le COP, pretendendo come condizione preliminare, prima di spendere un altro euro o di intraprendere nuove politiche restrittive, che tutti gli altri Paesi si conformino ai migliori standard europei di efficienza energetica.

 

 

Il 22 giugno dello scorso anno, nell'appello rivolto al neo eletto Governo Conte per scongiurare la nuova ondata di incentivi alle fonti rinnovabili elettriche impattanti (in particolare all’eolico) e per cambiare la Strategia Energetica Nazionale, una coalizione di 11 associazioni ambientaliste scriveva:

"La Strategia Energetica Nazionale si riduce così ad una Strategia Elettrica Nazionale dove appare ormai evidente che ci troviamo ad affrontare le spinte di alcune lobby  che stanno cercando di imporre “una” soluzione come “la” soluzione del futuro, evitando che il dibattito e le analisi prendano in considerazione tutte le soluzioni possibili, scegliendo la migliore, la più conveniente e sostenibile per il Paese. La decarbonizzazione non passa infatti solo dall'elettrico, né tanto meno dall'eolico industriale, meno che mai in Italia."

L'appello è rimasto del tutto inascoltato dal nuovo Governo. Gli errori principali della SEN di Gentiloni-Calenda sono stati anzi riproposti nel recente Piano nazionale integrato Energia Clima (PEC). 

Adesso, sia pure con colpevole ritardo, cominciano ad affiorare qua e là - ma rigorosamente MAI sui maggiori organi di informazione italiani, monopolizzati dalla borghesia vendidora - i primi seri dubbi sull'efficacia delle politiche europee di contrasto al cambiamento climatico.

Ciò avviene mentre a Roma, davanti alla Commissione Attività Produttive della Camera, proseguono le audizioni per l'indagine conoscitiva sulle prospettive di attuazione e di adeguamento della SEN al PEC per il 2030. In quella sede continua da mesi la sfilata surreale di tutti gli "stakeholder", che, senza alcun contrasto da parte degli sprovveduti commissari, chiedono, più o meno velatamente, finanziamenti a pioggia ed allentamenti dei regimi vincolistici per realizzare tutti i loro programmi con la massima celerità, rispettando così la scadenza del 2030 ("Rimangono solo pochi anni per salvare il Pianeta!"). Finora non è stato audito, invece, nessuno di coloro che dovranno pagare il conto finale, la cui opinione, evidentemente, pare godere di scarsa rilevanza presso i rappresentanti del popolo.

E ancora, sempre a Roma, ma appena un paio di settimane fa, è stata avviata dal Governo, come già accaduto per la nuova SEN, la sceneggiata democraticistica della "pubblica consultazione" sulla bozza del PEC, che prevede 184 miliardi di euro di investimenti, cioè, a testimonianza del rigore dei conteggi ministeriali, il quintuplo (il quintuplo!) di quello che aveva vagheggiato (sarebbero dovuti essere 35 miliardi...) l'ex ministro dello Sviluppo Calenda in sede di presentazione del testo definitivo della "sua" SEN non più tardi del novembre 2017. In realtà saranno molti di più di 184 miliardi, considerando che, solo per incentivare la stessa quantità di produzione elettrica da Fer che si vorrebbe incrementare per il 2030, sono già stati impegnati circa 230 miliardi. Ma - quel che è peggio - la cifra di 230 miliardi esclude, oltre alle enormi spese accessorie per le reti, il dispacciamento ed il bilanciamento del sistema elettrico, gli investimenti in materia di riscaldamento e di trasporti, che sono da prevedere schiaccianti per il 2030. E' dunque facile anticipare che la spesa totale potrebbe essere, a regime, addirittura il doppio dei previsti 184 miliardi, da aggiungere ai 230 precedenti già messi in conto, per raggiungere alla fine un impegno pro capite complessivo nell'ordine dei 10 mila euro, una cifra da capogiro che ciascun italiano, in media, dovrà sopportare, senza peraltro ottenere alcuna riduzione delle emissioni globali clima-alteranti, destinate ad aumentare a dismisura in tutto il resto del mondo tranne che in Europa.    

Questa volta, se possibile, la beffa della "pubblica consultazione" è persino maggiore perchè, come riportato dal quotidiano Il Sole, il sottosegretario al Mise Davide Crippa ha dichiarato che "si tratta di un obiettivo rivedibile solo al rialzo". Tutta questa manfrina appare un caso di scuola della teoria dei gruppi di interesse, con la politica al servizio di interessi particolari quando i beneficiari sono in numero ridotto ma potenti e organizzati, mentre chi ne deve sopportare i costi e le altre conseguenze negative è frammentato e incapace (o inconsapevole o disinteressato) di chiedere protezione. Guarda caso, la scadenza - molto ravvicinata per esprimere giudizi così complessi - è fissata al 5 maggio, appena tre settimane prima delle temutissime elezioni europee, quando sia l'attuale Commissione Ue (e quindi tutte le sovrastrutture ordoliberiste prone ai voleri della Germania) sia il Movimento 5 Stelle rischiano di essere esautorati in anticipo da un voto popolare a loro apertamente ostile. Da qui la fretta nei Palazzi romani (Aò! E quanno ce ricapita 'sta congiunzione astrale?) di piantare rapidissimamente quanti più paletti possibili per rendere gli obiettivi al 2030 vincolanti.

Tornando alle voci dissenzienti, riportiamo di seguito qualche esempio significativo, scelto (apparentemente) a caso.

Ci è parso particolarmente efficace l'articolo di Stefano Verde, apparso il 2 aprile sul sito web della rivista Energia, dal titolo "Perchè prendere l'energia dalla coda".

"Piuttosto che sacrificare alcuni gradi di libertà a disposizione dei singoli Paesi attraverso target specifici, l’Unione europea avrebbe potuto fissare un obiettivo di riduzione delle emissioni",  afferma Verde, che così argomenta: "Se l’obiettivo ultimo è la decarbonizzazione, la politica europea avrebbe potuto essere efficace anche se si fosse basata su un solo semplice target di riduzione delle emissioni... Invece i target introdotti da Bruxelles non si sono limitati a definire quale sia la necessità d’azione e l’obiettivo finale, ma disegnano anche una traccia delle traiettorie per arrivare alla destinazione finale (quante rinnovabili, quanta efficienza, in quali usi finali ricercare l’efficienza, …). E poiché ogni Paese ha la propria storia, la propria società, la propria base industriale, le proprie abitudini “one size does not fit all”. Quindi, nella costruzione delle strategie nazionali il dover rispettare obiettivi di secondo ordine potrà rendere meno efficace e meno tempestivo lo sforzo verso l’obiettivo primario, nonostante il fattore tempo sia una variabile importante nella lotta al cambiamento climatico".

Si tratta dunque della riproposizione del concetto, da noi più volte espresso, di non affidarsi, per affrontare il problema, nè ai cavillosi regolamenti dei tecnocrati della Commissione europea ad egemonia tedesca nè, più a monte, al pensiero unico dell'integralismo ambientalista, che impedisce qualsiasi iniziativa che non sia quella ultra-ortodossa ispirata alla COP21 di Parigi.

"Non sorprende quindi - prosegue Verde - che alcune delle misure previste nel Piano nazionale, pur rispettando i vincoli introdotti dall’UE, non massimizzino né le opportunità di sviluppo industriale del Paese, né perseguano il minor costo della manovra energetica o la loro migliore accettabilità sociale. L’efficacia delle misure ipotizzate dovrebbe prima di tutto fondarsi sulle abitudini e le necessità di chi l’energia dovrà utilizzarla: il settore residenziale italiano è pronto (e ha liquidità sufficiente) per passare a nuove soluzioni di riscaldamento che necessitano di una profonda ristrutturazione delle abitazioni? Fino a che punto il settore industriale italiano potrà passare dal vettore del gas all’elettrico per i propri processi?"

E, aggiungiamo noi, fino a che punto gli italiani potranno sopportare gli scempi paesaggistici degli impianti ad energia rinnovabile ed i relativi costi in bolletta elettrica, oltre alla rinuncia, di fatto, all'uso delle automobili da parte del quartile meno abbiente della popolazione? Verde così conclude:

"Tutte queste considerazioni ci portano ad auspicare un approccio pragmatico alla redazione degli obiettivi e delle misure che costituiranno il PNIEC definitivo e che diverranno poi vincolanti per il Paese. Pragmatico in quanto ad accettabilità sociale, a plausibilità dell’evoluzione dei comportamenti dei diversi consumatori di energia, ad ammontare della spesa da sostenere (sia essa pubblica o ribaltata in bolletta), a valorizzazione delle filiere e delle esperienze nazionali (affinché la transizione energetica si traduca davvero in opportunità industriale) e, infine, al “time to deliver”, per vedere effetti concreti anche nel breve termine".

In sintesi: interesse nazionale, benessere della popolazione, profitti delle imprese non possono essere ignorati in nessun caso, pena la castrazione energetica della Nazione e la rivolta degli italiani.

Appare utile a questo proposito, se non altro per quantificare le dimensioni del problema, ricordare la conclusione del recente lavoro di Enrico Quintavalle, responsabile dell'ufficio studi Confartigianato.  

Quintavalle sintetizza il disastro della scelta folle di affidarsi a iper-incentivate pale eoliche e pannelli fotovoltaici (che ricevono - e riceveranno almeno fino al 2031 - per ogni MWh di elettricità prodotta un incentivo pari ad un multiplo del suo prezzo di mercato), che da sola spiega il perchè del gap nel mancato aumento di produttività del "sistema Italia" nell'ultimo decennio rispetto ai fantasmagorici progressi della concorrenza internazionale, in particolare quelli realizzati in Oriente, dove ci si disinteressa sfacciatamente degli aumenti delle emissioni clima-alteranti. Ecco le conclusioni di Quintavalle: 

"Va peraltro evidenziato che in media nel decennio lo spread elettrico è stato molto elevato, pari al 26%, determinando una pesante riduzione di competitività delle piccole imprese italiane, in particolare quelle manifatturiere, esposte alla concorrenza internazionale".

Sullo stesso argomento, ci va giù ancora più duro il Professor Alberto Clò, nell'articolo dell'8 febbraio su Energia, dal titolo "Prezzi dell'energia: la palla al piede dell'economia europea (specie italiana)":

"E l’Italia? Nelle classifiche il nostro paese si piazza sempre nei primi posti nei livelli dei prezzi finali dell’elettricità e del metano. Addirittura primo tra i paesi del G20 (vedi diagramma sotto. Ndr) in quelli dell’elettricità all’industria. Amaro primato e segno del fallimento della politica energetica nel voler ridurre il ‘gap di costo’ dell’energia (leggasi SEN 2013)".

Se con il PEC vogliamo ripeterci, raddoppiando il fardello sulle spalle della prossima generazione di italiani, per favorire le lobby, l'industria tedesca e la concorrenza asiatica, siamo sulla buona strada.

Facile individuare la responsabilità primaria del disastro nella miope politica neo-mercantilistica tedesca, frutto del pressapochismo culturale, prima ancora che politico, delle loro élite. Per mero opportunismo, e per compiacere i Poteri Forti tedeschi, nel nucleo stesso della struttura portante dell'Unione Europea è stata costituita una "tecnocrazia invisibile ma potentissima, che emana direttive l'una sull'altra costruite in un segreto formarsi di un potere così lontano dai popoli da far dimenticare della sua stessa esistenza." (la definizione è del Professor Giulio Sapelli).

Fortunatamente, i dubbi sull'efficacia di questa Klimapolitik si rafforzano anche in Germania.

Citiamo a titolo di esempio l'articolo del Professor Thomas Mayer, economista dell'Università di Witten/Herdecke, sul Frankfurter Allgemeine Zeitung del 2 marzo, dal titolo: "Avanti con la tassa sulla CO2!".

Il Professor Mayer, come noi convinto della necessità, a monte, di una soluzione di mercato e come noi favorevole all'applicazione di una imposta pigouviana (che a nostro avviso dovrebbe sostituire progressivamente l'IVA e non aggiungersi ad essa), scrive: "La tassa dovrebbe essere prelevata quando i combustibili fossili entrano nel ciclo economico, cioè nella produzione nazionale o quando si attraversa la frontiera", aggiungendo che "la giungla delle sovvenzioni e dei regolamenti potrebbe essere liquidata".

Raccomandiamo a chi conosce il tedesco di leggere tutto l'articolo di Mayer, non solo per conoscere, sia pure a grandi linee, la sua proposta di carbon tax (per molti versi simile a quella della Imposta per le Emissioni Aggiunte sponsorizzata dagli Amici della Terra Italia, e che ancora necessita di migliori specificazioni), ma altresì per dimostrare, contro tutte le apparenze contrarie, che anche tra i tedeschi non è scomparso il senso dell' (auto) ironia. Così conclude il suo articolo Mayer:

"Si potrebbe pensare che i nostri responsabili politici non abbiano mancato di notare che la loro politica contro il cambiamento climatico raggiunge risultati molto modesti a costi estremamente elevati. Il limite della resilienza dell'economia tedesca da parte di questa politica dovrebbe presto essere superato. Tuttavia, essi non mostrano alcuna propensione a correggere il corso intrapreso. Il motivo potrebbe essere che una potente lobby verde trae enormi vantaggi da questa politica e impedisce qualsiasi cambiamento. Spetterebbe agli elettori convincere i politici a mostrare a questa lobby il cartellino rosso e perseguire una politica migliore contro il cambiamento climatico".

Riproporremo quest'ultimo capoverso al termine di ogni post della Rete della Resistenza sui Crinali fino alle prossime elezioni europee.

In Germania il Professor Mayer non è certo una vox clamantis in deserto. Per citarne un'altra, si è espresso in modi critici, sempre sul Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche un autorevole rappresentante dell'Establishment tedesco come David Folkerts-Landau, il capo economista della Deutsche Bank recentemente salito agli onori delle cronache italiane per avere difeso le ragioni dell'Italia nell'allentare le rigidità dei vincoli europei sul nostro deficit, nell'articolo del 18 marzo scorso "Klimaschutzpolitik auf dem Irrweg" (La politica di protezione del clima sulla strada sbagliata).

In attesa che anche i loro omologhi italiani manifestino su questo argomento un'analoga indipendenza di giudizio, abbandonando l'imperante conformismo mainstream regnante in Italia ed un ottuso spirito gregario (ci rifiutiamo di credere che ci possa essere anche un solo economista o un esperto di energetica in buona fede che non si accorga delle assurdità in atto), cerchiamo di definire in estrema sintesi i termini politici più impellenti sottesi alla questione che più ci interessa. 

Tra un mese e mezzo si voterà per il rinnovo del Parlamento europeo.

Ci sono momenti in cui si fa la storia. Il 26 maggio è uno di questi. Il tema principale, oggi, è salvare l'Unione da se stessa, da regole troppo stringenti, in particolare da quel misto di ordoliberismo e neomercantilismo che la sta soffocando. E' assolutamente indispensabile cambiare l'Europa per non sfarinarla. Se si confermassero i rapporti politici in essere, lo sfaldamento già avviato sarebbe destinato ad accelerare, e tra cinque anni, conoscendo dall'esperienza storica che cosa sta in agguato e chi potrebbe comparire sulla scena, si rimpiangeranno quelle stesse forze "populiste" e "sovraniste" che adesso i "giornaloni" demonizzano.

Il primo segnale, dopo le elezioni, per dimostrare che la rotta è cambiata, dovrebbe essere l'immediata abolizione del Clean Energy Package  ed in particolare dell'occhiuto regolamento "Governance", che avrebbe suscitato l'ironia persino dei più ottusi pianificatori sovietici e che legherà l'Italia ad un letto di Procuste fino al 2030 ed oltre. A questo dovrebbe inevitabilmente seguire un diverso approccio europeo verso le COP organizzate dall'Onu e l'abbandono dell'autolesionistico comportamento remissivo (da capro espiatorio di tutti i mali del mondo) finora seguito in quelle sedi, pretendendo come condizione preliminare, prima di spendere un altro euro o di intraprendere nuove politiche restrittive, che tutti gli altri Paesi si conformino ai migliori standard europei di efficienza energetica.

Le sfide del futuro richiedono l'utilizzo di strumenti e strategie a cui da tempo l'Europa, ed in particolare il nostro Paese, ha rinunciato.

C'è tuttavia un problema non piccolo: nessuna (NESSUNA!) forza politica italiana, a differenza di quanto avviene in TUTTI gli altri Paesi europei, presenta questa istanza nel proprio programma e neppure ha mai palesato alcuna determinazione a contrastare l'attuale dannosa e auto mutilante politica climatica. A dimostrazione del conformismo politicamente corretto imperante nella politica italiana, basti pensare che neppure i partiti che pure si richiamano alle radici identitarie si sono impegnati per opporsi all'installazione di pale eoliche ciclopiche su tutti i crinali del nostro Paese, deturpandone il paesaggio e l'ambiente in modo irreversibile. Qualcuno potrebbe provvedere a sollecitare questa esigenza prima delle imminenti elezioni? Altrove, in tutta Europa, questo è già un fatto ampiamente acquisito (lo vedremo in un prossimo post). Anche in Italia - soprattutto in Italia - ciò rappresenterebbe un sicuro successo in termini di consensi elettorali.

Alberto Cuppini

 

 


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